ARCO Lisboa
Lo specchio di Nina, 2024. T.M. su tavola cm60x60

Narciso cieco

Si inaugura venerdì 9 maggio alle 18.30 presso il Centro Commerciale Culturale di Ragusa La forma infranta, personale di Salvatore Fratantonio a cura di Elisabetta Rizza che racconta la tensione tra l’individualità e l’alterità, tra la condizione esistenziale e uno sguardo partecipe e allarmato sul mondo delle ultime ricerche dell’artista. La mostra rimarrà visitabile sino al 3 giugno.

Cala il sipario. La luna, un tempo soda come un frutto, diventa una falce tagliente. Ciò che era duro, si spezza. Ciò che era uno, ora è tanti. Gli opposti non si completano, i vicini si fanno lontanissimi. Come siamo giunti a questo segno? Dove sono i cieli, i mari, il blu di Prussia, i carrubi dai rami agitati dal vento? Dove le valli, i colli solitari? Dove le città assolate? Salvatore Fratantonio, il colorista che, per tutta la vita, ha cantato la natura, dai vasi fioriti alle azzurre distanze solcate da gabbiani, in queste opere si limita a raccogliere frammenti. Dico frammenti in senso letterale. Le sue ultime prove sono infatti collage di specchi in frantumi, cocci aguzzi sovente anneriti, come a ribadire l’azione del tempo, sagomati e conficcati nella carne sino a farla sanguinare. Perché tormentare le tavole con questi corpi estranei? Come ho potuto constatare da una semplice ricerca, vari artisti fanno di azioni come questa il loro segno distintivo. C’è ad esempio un tale Simon Berger, ex falegname, che realizza ritratti realistici prendendo dei vetri a martellate; Pejac, il noto pittore spagnolo, fora al contrario le vetrate dei palazzi, ritagliandovi, come Banksy, immagini ad effetto, da ammirare da lontano. E tuttavia, per Salvatore, l’esercizio formale è sempre stato un mezzo e mai un fine. Se ha deciso di camminare coi vetri rotti in tasca, le possibili spiegazioni sono tante. Magari lo specchio si è infranto perché qualcuno lo ha spezzato. Abbiamo vissuto, tra guerra e pandemia, una crisi epocale. Sino a ieri l’altro eravamo pronti a punire, a crocifiggere per scelte che oggi appaiono mature e necessarie. Sino a poc’anzi qualcuno era un dittatore, qualcun altro un eroe da tutelare. Ciò che era vero ora è falso, ciò che era falso, vero. La domanda di Pilato – cos’è il vero? – attende ancora una risposta, che non può darsi se non su un piano esistenziale. L’artista è vivente e, in quanto tale, soggetto all’invecchiamento. Non sarà che il vetro è rotto perché l’autore, ormai quasi novantenne, ci vede poco e male? Anche questa lettura è legittima: non contraddice ma amplifica la prima. L’ultimo, forse più convincente motivo credo però di trovarlo nella storia. Sin dalla prima volta che vidi i suoi specchi, pensai ai lavori dell’ultimo Tiziano, quelli che passano dalla maniera luminosa e tonale al disfacimento della materia che diventa “greve”, ma sempre con scaglie e guizzi di luce che vibrano da dentro il quadro: una materia disfatta a colpi di pennello e di stracci e polpastrelli, usati anch’essi come attrezzi del mestiere, perché non sai se la vista diminuisce e le mani tremano, oppure si è giunti ai limiti estremi del reale. Il non-finito. Il nulla che balugina dal fondo dei dipinti. Fuochi o ferite di luce “nella notte”, come in una rassegna di Fratantonio – Autoritratto, il senso e l’essenza – del 2024. Gli occhi si socchiudono, la realtà arretra. Rimangono lampi, sbavature, riflessi che ne estraggono i contorni da ombre nere come pece. No, le vele, i paesaggi, i rami intrecciati non sono andati perduti nel naufragio delle storie. Una mano pietosa ne ha raccolto i pezzi sparsi, per rimontarli altrove. Certo Narciso è cieco, la luce e le cose si sono separate. Ma sinché un occhio amicosi si poserà su questi specchi, il gesto del pittore non sarà dimenticato.

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