ARCO Lisboa
Flavio Favelli
Flavio Favelli, Profondo Oro, 2020. Veduta dell’allestimento. Arte in Fabbrica – Gori Tessuti e Casa. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli

Lessico famigliare

Inaugurata il 18 settembre, e visibile fino al 28 marzo 2021, Profondo Oro di Flavio Favelli, a cura di Pietro Gaglianò, un progetto speciale per Arte in Fabbrica, nella sede storica della Gori Tessuti e Casa di Calenzano (Firenze). Ospitiamo il testo critico in catalogo, edito da Gli Ori editori contemporanei, dello stesso Pietro Gaglianò.

“… safari
fra antilopi e giaguari
sciacalli e lapin”
Rino Gaetano

Il walkman e la 500
Esiste una cultura sociale nella storia d’Italia che ha le proprie radici nella ricostruzione del dopoguerra e le proprie ragioni nel modo tutto italiano, e ben più antico e radicato, di organizzare lo spazio di relazione attorno a se stessi, alla propria famiglia, alla definizione e al consolidamento del proprio status. Sebbene nel presunto smagliarsi identitario della contemporaneità questo universo sembri appartenere al passato, in realtà continua a influenzare l’immagine che molti italiani hanno di sé e che amano consegnare al resto del mondo. È un mosaico che si compone di orizzonti di provincia, vera operosità e autentica fatica, mite tradizionalismo combinato a un confuso gusto per l’esotico, ambizioni modeste, grandi speranze e un’attitudine che se non poetica può certo venire definita immaginifica. Il principale luogo fisico in cui tutto questo ha preso forma, molto più dello spazio pubblico, è la casa della famiglia mononucleare, l’ambiente domestico in cui i nostri nonni e i nostri genitori, con incauto ottimismo, hanno confezionato la loro personale idea di stabilità sociale. Qui con le finiture, gli arredi, gli accessori si sono dispiegate le epifanie di quell’aspirazione al benessere materiale, di cui il lusso avrebbe dovuto essere un sintomo, che ha caratterizzato il sogno italiano, spesso prediligendo l’illusorietà dell’apparenza in luogo dell’autenticità della sostanza. 

La temperie culturale espressa dall’arcipelago di questi micro-sistemi ha avuto, per ragioni abbastanza chiare, il suo picco in coincidenza del boom economico degli anni Cinquanta ma si è estesa per decenni, fino a tempi recenti; visibilmente, i suoi modi, le sue manifestazioni, sono familiari alla quotidianità di molte generazioni e hanno influenzato l’educazione estetica di Flavio Favelli. Nel suo vissuto la casa, come sostituzione metonimica della famiglia, ha generato e continua a vigilare sui segreti, i drammi e le tenerezze di un lessico i cui lemmi si sono solidificati nella forma tangibile di oggetti d’affezione: un paralume, la testata di un letto, un comodino, un posacenere, una fotografia seppiata. Questa interpretazione affettiva della casa, dei suoi corpi, si esprime con chiarezza in un testo del 2002 in cui l’artista vagheggia la realizzazione di un proprio edificio, “una tomba, ma da vivo”, da farsi sull’Appennino: “sarebbe tutto costruito rispettando l’ordine delle cose secondo un’idea, una politica, un desiderio, una logica. Quella delle mie immagini”. Una casa come santuario in cui custodire quello che desidera: “ogni tanto andrei a portarci delle cose, gli arredi, le mie opere”1. Per necessità emotiva o per volontà poetica le tre categorie menzionate si sono coagulate nell’arte di Flavio: le sue opere sono fatti di cose e di arredi, di ciò che apparentemente “si perde o per nostro diffetto, o per colpa del tempo o di Fortuna”2. La casa ideale dell’artista, che forse un giorno sorgerà nella struttura da lui immaginata, per ora è il corpus della sua ricerca artistica, una luna ariostesca in cui si radunano le manifestazioni di una vasta cultura nazionale, attuale e negletta, necessaria per comprendere il presente.

Al cuore dell’opera di Favelli c’è la convinzione che tutto l’immaginario nutrito da questo mondo andato in frantumi non sia riducibile al rango di rovine. E sebbene la nostalgia permei (in modo salvifico, come si vedrà) il suo lavoro, il rapporto che l’artista intreccia con la semiotica del passato è vividamente dialettico. Favelli colloca questo immaginario non tra i capitoli di una memoria conclusa ma nello svolgimento di una produzione di significato ancora in corso: lo definisce “quasi eterno”3 nella misura in cui la sua presenza persiste nel segnare la forma della società e del linguaggio scelto per descriverla da scrittori, artisti, registi e da chiunque altro. L’attualità generativa di questo patrimonio fatto di oggetti tangibili ed elementi immateriali si chiarisce nell’uso che ne fa l’artista, nella sintassi delle sue opere; sia pure animato da una pulsione archivistica (comune a una generazione internazionale di autori e autrici), Favelli assembla oggetti e immagini accostando periodi tra loro lontani, senza la preoccupazione filologica del catalogatore di reperti. Nelle sue opere, la mobilia che vediamo nei film degli anni Cinquanta di Ermanno Olmi o Pietro Germi, divide lo spazio con suppellettili di due o tre decenni più tardi, i caratteri di una insegna al neon degli anni Settanta possono venire assemblati per comporre uno slogan da yuppismo rampante, una vecchia cornice decorata con tocchi barocchi a volte racchiude i luccicanti involucri di cioccolatini prodotti molti anni dopo, oppure molto tempo prima; così i Mostri di Dino Risi riverberano nel popolo “godereccio e spendereccio” da Weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli, anche se la modernità qui non viene data per tramontata ma si avvita in una pacificata, quasi consolatoria, convivenza in cui continua a osservare se stessa, come un walkman Sony in una Fiat 500 del 1957 nuova di pacca. 

Elegia del Novecento borghese
In Profondo Oro Flavio Favelli declina i termini della sua estetica in alcune opere che assumono la lucentezza dell’oro come epifenomeno di questo diffuso, irriducibile modo di essere. L’oro evocato dal titolo ha lo stesso ruolo mimetico di un vaso cinese finto ma buono, di una carta da parati che sembra stoffa e di altre incolpevoli finzioni che adornavano la casa bolognese dei nonni dell’artista il cui salotto, “magari con stili copiati”, può anche essere assimilato a un palazzo nobiliare veneziano4. Non si tratta dell’autentico metallo pregiato ma di un suo succedaneo, una specie di metafisico princisbecco che con la sua fittizia lucentezza traveste di patine e verniciature materiali meno nobili: legni trattati, leghe di metallo, scatole di biscotti e pacchetti di sigarette. 

La profondità che questo oro cela oltre lo strato superficiale è rivelatoria del suo stesso meccanismo finzionale; le persone che si sono circondate delle desiderate imitazioni conoscevano il valore di tutte le loro “buone cose di pessimo gusto”5 e ne conoscevano il prezzo, avendolo misurato attentamente prima e dopo l’acquisto. E con la stessa onestà ne ammettevano senza infingimenti la qualità di sfarzo solo presunto e tradotto in un più modesto ma inossidabile prestigio che li inquadrava, rassicurandoli, nella posizione sociale alla quale sentivano di appartenere, un po’ narcisisticamente, per un frainteso spirito di classe. Guardando a tutto questo con una partecipazione dolorosamente sensibile, Favelli compone il ritratto di un gruppo di famiglia – rigorosamente borghese – in un interno. “Per via di una specie di introiezione delle cose di casa, la vera casa borghese manifesta il suo essere in ogni oggetto e stanza”6, scrive l’artista e, anche se il principio di ogni riflessione, ogni slancio e ogni dolore è la sua propria casa (quella dei nonni, dei genitori, di lui bambino, lui adulto), il risultato che osserviamo in tutte le sue opere acquista una voce corale in cui è facile per chiunque riconoscere un frammento, al tempo stesso nevralgico e confortante, della propria storia soggettiva o familiare, tessere sparse che descrivono una complessa compagine sociale. Infine, facendo un passo indietro per una visione d’insieme che permetta di cogliere la moltitudine eteroclita dei temi confluiti nella ricerca dell’artista, si scorgono tutto attorno i feticci, i tabù, i conflitti e le contraddizioni di una nazione intera, di un secolo, il Novecento, tortuoso e violento, che ha più volte proposto a questo indefinibile e sfrangiato ceto medio un’assunzione di responsabilità, gli ha offerto la possibilità di essere attore protagonista della Storia e non solo testimone, vittima o commentatore, ma gli ha chiesto in cambio un prezzo forse troppo alto nella revisione del proprio status, indispensabile per una costruzione discorsiva di alternative.

Animismo dell’inorganico
Le opere di Profondo Oro riferiscono di alfabeti formali, materiali e medium che in fasi diverse hanno attraversato l’intera ricerca di Favelli. Alcuni elementi sono presenti nelle sue opere quasi dagli esordi, altri sono l’esito di percorsi di selezione e, in un certo senso, di metamorfosi, in cerca di una specificità della materia e degli oggetti, della loro singolarità nel rispondere alle manipolazioni e alle composizioni e, specialmente, della quantità di ramificazioni che si concentrano nel loro apparire, risvegliando connessioni a storie private e alla Storia.

La fascinazione per il materiale, per la sua capacità di preservare narrazioni, implicite nella sua fattura e accumulate nel suo invecchiare, si è via via concentrata nell’interesse per l’oggetto d’uso, per il manufatto; quest’ultimo, il prodotto, la cosa comprata, sovrappone nella propria presenza l’articolata catena di passaggi del sistema di produzione, promozione e distribuzione, fino alla vendita, all’acquisto e alla quieta permanenza nelle dimore dei suoi proprietari le cui vite finisce in qualche modo per assorbire. L’inclinazione per l’impiego dei mobili e di altri prodotti di ampia diffusione, più che guardare alla genealogia dell’oggetto nell’arte del Novecento, si sviluppa in Favelli come elaborazione di un linguaggio in cui convergono la ricerca formale e un forte fattore emozionale, una sensibilità animistica che forse ha come unico riferimento Jannis Kounellis; con lui Flavio condivide anche la fiducia nell’autonomia dell’opera e la certezza che l’arte non sia questione di rappresentazione ma di presenza: “l’artista pensa e propone opere d’arte che anche se assomigliano a certe cose non possono che essere solo opere d’arte”7

L’immanenza dell’arte rispetto alla sua materia è leggibile già nei primi esercizi su ampia scala di Favelli, come l’intervento nell’ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato, a Bologna, nel 20008. Si chiarisce qui l’adozione del “mobile” come medium, già visibile anche in opere precedenti (e nei progetti realizzati al Link Project di via Fioravanti), che diverrà una scelta più profondamente consapevole negli anni seguenti, in particolare nel 2005 con l’addensarsi delle mostre legate ai temi della sala d’aspetto e del vestibolo, e che porta Favelli a scrivere che i mobili “contengono una sorta di principio di conoscenza, fatti di incastri e lavorazioni commoventi”9.

Profondo Oro
È questa la lingua con cui parlano le due grandi sculture al centro di Profondo Oro, composte con ante e montanti di armadi, specchiere (moltissime specchiere), sportelli, cassetti e testate di letti. Le due opere hanno un aspetto ibrido: sembrano parti un leviatano dei mobili che ha fagocitato suoi simili e finisce per somigliare a un bar, a una cabina (il titolo di una delle due è Grande Guardaroba), a uno strano sepolcro o a una cella; ma appaiono anche come architetture che evocano un paesaggio periurbano e con le due torri svettanti, con le sporgenze, gli aggetti, le rientranze richiamano il profilo di edifici industriali, di fabbriche spente e silenti. 

L’artista vi lavora come si fa davanti a un dipinto: c’è una visione aerea della composizione generale e c’è l’attenzione meticolosa al dettaglio, ai passaggi cromatici, ai piccoli equilibri tra le parti minute. La superficie stessa dell’opera rivela la sua natura pittorica, tessuta in un’organizzazione di segni, alcuni disposti dall’artista altri già presenti sulla pelle dei mobili in modo incidentale, si potrebbe dire spontaneo e quasi, in un contrasto ossimorico, naturale, similmente ai meravigliosi paesaggi che i minerali istoriano negli spessori della Pietra Paesina. Sul legno, sulle plastiche e sui metalli si depositano indelebili le tracce del tempo e dell’uso, del deperimento naturale, delle ossidazioni, delle reazioni date dal contatto tra i materiali, con i liquidi e i segni di altri incidenti domestici, dando forma a disegni e sfumature irriproducibili. La semplice geometria degli arredi e dei loro frammenti è così una successione di strati in cui si decanta la vicenda di chi li ha posseduti e utilizzati, personalizzando e completando la storia collettiva della produzione industriale, del gusto e del costume. Favelli aggiorna queste presenze, sia amalgamandole tra loro sia rimuovendo parzialmente le patine e le vernici. 

Con il procedimento di raschiatura vengono portate alla luce alcune fasi della lavorazione originaria e viene denudata la struttura, mostrando passaggi nascosti, come avviene in modo specialmente evidente sugli specchi. Dello specchio sulle due sculture si mostra il retro, il lato che normalmente si trova nascosto, addossato al muro o a un pannello di legno. Qui Favelli utilizza le sovrapposizioni di materiali presenti per un’originale interpretazione dello sgraffito; sempre dal retro lavora sugli strati di argentatura e di verniciatura protettiva e esuma superfici riflettenti, opache, a tratti dorate. È un altro oro profondo, celato alla vista, nel quale idealmente si sono raccolte, come sul fondo di uno stagno incantato o su una durevole lastra fotografica, le immagini delle persone che hanno usato il lato principale dello specchio. Anche lo specchio è presente da quasi due decenni nelle opere di Favelli ed è sulla sua consistenza liquida che, tra le prime volte, compare l’oro intrecciando tra loro i campi semantici dei due elementi e moltiplicandoli. Lo specchio è un osservatore che nei tinelli, nei bagni e nelle camere è il testimone muto delle faccende più private delle famiglie e, in qualche misura, avvertendo questa presenza occhiuta ne subiamo anche il giudizio, sia quando restituisce gli sforzi della nostra vanità sia quando, inavvertitamente rimanda prospettive e angolazioni di cui prendiamo coscienza stupefatti.

L’oro domina anche la pittura murale che l’artista ha realizzato su un’ampia parete esterna della ditta Gori, progetto permanente che nell’area industriale di Calenzano srotola all’improvviso un pastiche di immagini fiabesche e nomi esotici. Il palazzo del sultano saltato fuori dalle pagine de Le mille e una notte, sospeso sul moto sinuoso di un tappeto volante, con arabeschi e palme, sullo sfondo di uno strano cielo notturno nero e dorato, riproduce in realtà l’etichetta di un lanificio pratese, prodotta in una tipografia della stessa città all’inizio degli anni Cinquanta. E il tappeto non è altro che una coperta, così come la scritta che occupa la parte inferiore del dipinto, ‘Kandahar’, non si riferisce alla città afghana ma all’omonima stazione sciistica nella Germania meridionale, e proviene da una affine etichetta per tessuti in lana, da tempo scomparsa come la prima. Entrambi gli esotismi illustrano le strategie di marketing dei lanifici pratesi al tempo della loro più florida espansione, quando la seduzione pubblicitaria utilizzava riferimenti a luoghi remoti o rinomati per avvincere i clienti. Questo dispositivo si svela nel titolo dell’opera, Made in Italy, che compare in basso a destra. Favelli ha raccolto brani di storia industriale e li ha combinati con la sua passione per il collage, portando su oltre cento metri quadrati di parete un sottile studio sulle iconografie commerciali che negli slanci del boom economico hanno anticipato l’estetica pop e ne sono state la premessa. 

Le immagini della réclame e le logiche pubblicitarie dei grandi marchi entrano spesso nelle sue opere, essendo parte dello stesso paesaggio culturale in seno al quale si è sviluppata la sua storia personale e familiare. Flavio vede in queste emanazioni della cultura di massa una grazia ammaliante, sono la parte del consumismo che più si avvicina allo splendore e alla felicità che mendacemente promettono: “le insegne, le réclame, le scritte pubbliche e gli slogan sono l’apice della cultura moderna che divora tutto, ma solo dopo averci fatto vedere intensi bagliori di luce e di cristallina bellezza e libertà”10. Le insegne al neon, sia quelle delle compagnie più celebri come la Coca Cola, sia quelle nazionalpopolari come il Totip, o quelle di carattere locale, per alberghi e aziende familiari, attraggono l’artista anche per la flessibilità che gli permette di trarne altri slogan e diverse combinazioni di senso. I caratteri dell’installazione luminosa nel vano scale dello spazio espositivo provengono dall’insegna di un’officina dismessa e snocciolano ora un paio di parole in inglese, NATIONAL OFFICE, in cui coesistono l’orgoglio nazionale e la velleità provinciale dell’internazionalismo. Nello stesso modo l’artista si dedica all’innesto tra banconote diverse, francobolli, pannelli pubblicitari di vario tipo e anche tra elementi tra loro non congruenti. Gli spiazzamenti cognitivi che ne derivano mettono in risalto i contrasti intrinseci alla comunicazione visiva e, mentre indicano la possibilità di una storia diversa o di un altro modo di raccontare il capitalismo, di contrastare le retoriche dei poteri, diventano i vocaboli di una enunciazione poetica che riscatta tutti: noi, la società dei consumi, chi ci ha lucrato, chi la combatte, chi ne è stato sopraffatto e chi ha creduto di goderla.

Heimweh
Nel 1688 uno studente di medicina presentò all’Università di Basilea una dissertazione su un male che affliggeva, anche portandoli a morte, i soldati svizzeri lontani da casa. Per descrivere le sofferenze indotte dalla “lontananza, l’inappartenenza, la privazione, la solitudine” esisteva già il termine generico tedesco ‘Heimweh’ (‘mal di casa’); ma il giovane studioso seguì la consuetudine accademica di “convogliare sequenze di sintomi sotto il nome di una malattia e allargare il dizionario delle patologie con composti attinti dalla lingua greca”: ne nacque ‘Nostalghia’, dal greco ‘nostos’ (ritorno) e ‘algos’ (dolore)11. Si deve quindi alla sua moderna interpretazione clinica (perché di Heimweh si poteva anche morire, allora come oggi) il nome di un sentimento antico come l’umanità stessa. Sganciandosi da queste connotazioni mediche la nostalgia diventerà presto, nella cultura europea, campo di ispirazione e selva oscura di esplorazione per poeti, scrittori, artisti; e finirà per liberarsi, molto presto, anche della specificità geografica, non legandosi più a un luogo la cui lontananza genera sofferenza e quindi a un ritorno che possa sanare il dolore: potrà essere anche un paese solo immaginato o immaginario, l’oggetto della nostalgia, come per Baudelaire, o una situazione irripetibile o un tempo trascorso e perduto come per Proust e, da qui in poi, per tutto il Novecento. A questo male, nella vita positiva del nostro secolo, non viene data soluzione, ecco perché la nostalgia è stata bandita “sia in arte sia nella società contemporanea”, scrive Flavio Favelli, mentre per lui “è uno stato d’animo per il quale non c’è rimedio se non cercare di ricreare certi momenti, certe situazioni che possano in qualche modo avvicinarsi a quell’idea, a quel giacimento di immagini che è passato”12. Sembra fatalmente condannata all’insoddisfazione la melancolica nostalgia del nostro tempo ma è proprio qui che interviene l’esperienza dell’arte: quello squarcio aperto sul presente, quella consolazione improvvisa, quel vuoto interrogante e a volte doloroso. Per il suo autore sarà un tentativo di avvicinamento, la scena in cui coltivare un turbamento intravisto e riproposto che è parte del suo modo di essere artista, ne è la ragione e lo spazio di creazione; per chi si trova al cospetto dell’opera, invece, non sarò un luogo per la memoria ma un presente inaspettato.

1. Flavio Favelli, La mia casa è la mia mente, maggio 2002, in The book by Flavio Favelli, FAU Books, Milano 2003, p. 127.
2. Ludovico Ariosto, Orlando furioso, canto XXXIV, 73.
3. Da una conversazione dell’autore con l’artista.
4. Ne scrive l’artista a proposito della mostra a Ca’ Rezzonico nel 2019; Flavio Favelli, Tempo Veneziano, in Id., Il bello inverso, catalogo della mostra, bruno, Venezia 2019, p. 113.
5. Guido Gozzano, L’amica di nonna Speranza, in Id., I colloqui, Treves, Milano 1911 [ed. cons. Gozzano e i crepuscolari, Garzanti, Milano 1983, p. 55].
6. Flavio Favelli, Senso 80, in Id., Senso 80, catalogo della mostra, FAI, Venezia – Milano, 2017, p. 11.
7. Favelli, Tempo… cit., p. 117.
8. È il progetto Catetere. Introduzione a un’architettura, per il quale Favelli ha ritenuto necessario abitare per quattro mesi gli spazi dismessi, rivitalizzandoli con la sua presenza che anche in questo caso muoveva da un dato autobiografico essendo stato il padre impiegato delle Ferrovie dello Stato.
9. Favelli, Senso… cit.,p. 12.
10. Favelli, Ibidem.
11. Cfr. Antonio Prete, L’assedio della lontananza, in Id., Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992, pp. 9 e ss.
12. Flavio Favelli, UNIVERS. Un negozio metafisico, in Id., Magonza editore, Arezzo 2018, pp. 9-10.

Flavio Favelli
Profondo Oro
a cura di Pietro Gaglianò
progetto speciale per Arte in Fabbrica
18 settembre 2020 – 28 marzo 2021

Arte in Fabbrica – Gori Tessuti e Casa
via Vittorio Emanuele 9, Calenzano (Firenze)

Orari
da lunedì a venerdì 10-13 / 15-18

Informazioni
tel. 055 8876321 | arteinfabbrica@goritessuti.com

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