La scrittura è un elemento primigenio di comunicazione che l’arte contemporanea ha saputo accogliere all’interno della sua compagine formale, estetica e concettuale, con sguardi e posizioni differenti, in grado di scardinare regole e avanzare nuove interpretazioni e nuovi sguardi. L’incontro tra la forma rigorosa dei caratteri tipografici e la fluida energia delle immagini ha spinto gli artisti a concepire opere in grado di esprimere riferimenti e concezioni plurali. Dai collage cubisti di Pablo Picasso fino all’utilizzo della scrittura nei Futuristi, per giungere a Marcel Duchamp e, naturalmente, alle sistematiche riflessioni avviate negli anni Sessanta e Settanta dai gruppi d’avanguardia che grazie a personalità come Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini e molti altri hanno saputo percorrere una ricerca in grado di accogliere al contempo messaggio sociale, esperienza verbo-visiva, indagine politica e affondo costante nell’universo di un immaginario estremamente denso. Oggi che la comunicazione ha preso altre strade, rotocalchi e quotidiani sono stati quasi totalmente soppiantati dal web, chi come Paola Mancinelli recupera parte di questo immaginario, struttura un’operazione di resistenza e di ripensamento di determinate pratiche.
Il progetto espositivo Pura forma con limite, frutto di una lunga genesi, mette in campo collage, installazioni, assemblaggi e tecniche miste in cui Paola Mancinelli ha investigato in maniera rigorosa due grandi ambiti che le appartengono da tempo: l’immagine (e le sue trasfigurazioni) e naturalmente la scrittura, attraverso un lavoro lento e approfondito sulle relazioni che li uniscono, ma anche sulle distopie che li caratterizzano nell’orbita di un rapporto simbiotico e quindi convulso.
Paola Mancinelli difatti è una viaggiatrice nel mondo dei caratteri tipografici, dei contenuti testuali e delle suggestioni che affiorano dalle fotografie rintracciate in lunghe e ossessive ricerche iconografiche. Lei è un’archeologa, osservatrice scrupolosa, capace non soltanto di leggere la singola immagine, ma di associarla ad altre, in un lungo lavoro che è anzitutto meditativo. Esplora, quindi. Il suo sguardo seleziona, la sua mano associa, la mente preventivamente fa combaciare immagini apparentemente lontanissime. Il suo è infatti un “Atlante” delle immagini, in cui non vi è nulla di warburgiano, ma piuttosto un approccio sentimentale alle cose. Niente di romantico, attenzione; bensì di empatico, perché Paola Mancinelli procede attraverso un processo concettuale di appropriazione e spesso di una conseguente metamorfosi delle riproduzioni che sceglie. E talvolta questa sorta capita anche ai dettagli di opere di artisti da lei osservati e studiati: da Giulio Paolini a Helmut Newton, da Francesca Woodman a Ettore Spalletti. Non si tratta di un ready-made, ma di un processo di consapevolezza capace di mescolare immaginari – compresi quelli della letteratura e del cinema, naturalmente – in un unico flusso che costituisce nuove immagini, nuove interpretazioni e soprattutto nuovi sensi. Come una archeologa delle immagini, entra così in relazione con differenti visioni, individuando peculiarità essenziali in un’anatomia, in uno sguardo, in un dettaglio: affiora così una geografia di spazi aperti della visione, tutta da investigare anche grazie alle didascalie redatte dalla stessa artista, parte integrante del display della mostra: informano, ma soprattutto ci aiutano a entrare con ancor più consapevolezza nella struttura delle singole opere. Ma la didascalia, a ben guardare, è anzitutto scrittura, e quindi dialogo, trasmissione di un sapere, fonte di messaggi da leggere e decifrare.
Chiude il percorso un’opera concepita su carta da pacco dall’alto tasso tautologico, si chiama Paper, che è la parola dipinta sul fronte con un carattere tipografico essenziale. Saluta idealmente lo spettatore riconducendo la riflessione suggerita dalla mostra al suo grado zero: la scrittura esplicita così, definitivamente, il pensiero che è alla base di tutta la ricerca di Paola Mancinelli, ovvero la comunicazione. E comprendiamo così quanto il lavoro di Mancinelli sia, anzitutto, parola, grado zero di un desiderio di relazione con ciò che è altro rispetto a lei, ovvero con noi suoi spettatori.