Raffaello visita le carceri di Salerno

L’arazzo da Raffaello all’arte contemporanea

Dal 27 maggio all’1 di ottobre 2023 un arazzo realizzato su cartone di Raffaello, risalente alla prima metà del XVII secolo e raffigurante Ananias e Saphira, di proprietà di Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona, viene esposto nella Casa Circondariale “Antonio Caputo” di Salerno. Ne è nato un progetto di arte sociale, Raffaello visita le carceri di Salerno, a cura di Michele Citro, che ha coinvolto, oltre ai detenuti, istituzioni, artisti, accademici, storici dell’arte e curatori. In questo intervento traccio una sintetica storia dell’arazzo da Raffaello a oggi.

La lavorazione del tessuto, come sappiamo, possiede radici antiche. I tessuti servono a soddisfare esigenze primarie come vestirsi o riscaldarsi: gli arazzi isolavano dal freddo, aiutavano a non morire congelati. L’arazzo di Raffaello esposto in questa sala non fa eccezione, e tuttavia in esso, come accade in certi abiti di alta moda contemporanei, la funzione d’uso è soppiantata dal fascino, dal gusto. Mai si era vista prima qualcosa del genere. Innanzitutto i cartoni dell’artista inventavano lo spazio, lo allargavano facendosi forti delle conquiste della prospettiva. C’era poi il dinamismo psicologico dei gesti di cui era stato maestro Leonardo. Infine, pur non rinunciando a far uso di materiali preziosi, dalla seta all’argento all’oro, gli arazzi di Raffaello facevano tranquillamente a meno dei dettagli su cui i nordici erano soliti smarrire la ragione. Nasceva un nuovo modo di concepire l’arazzo.

Se infatti nel medioevo quest’arte era il frutto di una libera creatività individuale, nel ‘500 finì per diventare un lavoro industriale. Di altissimo livello, certo, ma comunque fedele ai cartoni dell’artista. Così, in un breve volgersi di tempo, Parigi e Arras perdettero terreno a vantaggio di Bruxelles, che diventerà per oltre un secolo il laboratorio d’arte prediletto dai campioni della pittura italiana che, come Raffaello, si limitavano a fornire i disegni. Una tale consuetudine durò immutata per altri due secoli sinché, nel ‘700, le principali case regnanti l’Europa pensarono bene di rendersi indipendenti dalle importazioni. Nacquero così San Leucio in Campania o la Real Fabbrica degli arazzi di Madrid, passata alla storia per la realizzazione degli arazzi disegnati da Goya. Arazzi convenzionali, interpreti della moda del tempo, che riscopriva illuministicamente gli usi e i costumi del popolo, ma in cui risplendeva, come nei capolavori di Raffaello, il genio dell’artista. A chi altri, se non al futuro autore dei Capricci e delle Pitture Nere, sarebbe venuto in mente di immortalare un gruppo di donne intente a far saltare in aria su un lenzuolo il dinoccolato pupazzo di un marito da impalmare? Dopo la rivoluzione francese, la produzione di massa, il costo della manodopera e i conflitti sociali decretarono la fine degli arazzi.

Nella Parigi del 1789 la folla giunse a darli alle fiamme come emblemi del potere. Fu una vera e propria pira funebre: troppo impegnativi e ingombranti per il vivere moderno, i nobili arazzi vennero soppiantati dai quadri da salotto. Un primo revival degli arazzi si ebbe nell’Inghilterra ottocentesca di William Morris, che intravvedeva nel lavoro manuale necessario a tesserli un rimedio all’alienazione industriale. Perché però gli arazzi tornassero realmente in auge bisognerà aspettare proprio il secolo in cui l’industria regna incontrastata. Sin dai primi decenni del Novecento, in tutta Europa artisti e movimenti cercano infatti nel passato la strada del futuro. Tessile e pittura si intrecciano in profondità. Non più mera riproduzione, l’opera tessile si mostra come interpretazione critica della pittura, condotta il più delle volte con l’intento di introdurre il bello nella vita quotidiana. In questa direzione si muovono sia la Wiener Werkstätte sia il Bauhaus; in Italia, poi, l’arazzo ha una fortuna speciale grazie all’entusiasmo dei Futuristi, in particolare di Depero, nella cui casa d’arte a Rovereto vennero prodotti i primi arazzi in tarsie di panno colorato, premiati con la medaglia d’oro all’Esposizione internazionale delle arti decorative di Parigi del 1925: l’esposizione, per capirci, che segna la nascita dell’Art déco. Né le Triennali meneghine furono da meno, conferendo per ben tre edizioni la medaglia d’oro per il migliore arazzo a prodotti italiani: a cominciare da quelli della scuola di Esino Lario, fondata nel 1936 da don Giambattista Rocco, che con colori smaglianti e nuovi particolarissimi telai tradusse su tessuto i cartoni di Sassu, Lilloni, Fornasetti. Altre manifatture importanti nacquero un po’ dappertutto; si ricordino, quantomeno, l’Arazzeria di Penne in Abruzzo e quella fondata da Ugo Scassa nella Certosa di Valmanera fuori Asti.

Questo per quanto riguarda la persistenza dell’arazzo nelle sue tecniche e nei luoghi produttivi. Ma c’è dell’altro. Nel 1955 Nelson Rockefeller commissionò una riproduzione di Guernica di Picasso e nel 1985 la offrì in prestito alle Nazioni Unite. Tessuta dall’atelier francese di Jacqueline de la Baume-Durrbach sotto la supervisione dell’artista, fu installata nel corridoio che si trova davanti alla sala del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 1985. Bene, mentre si discuteva di invadere l’Iraq, i vertici dell’ONU decisero di coprirla con un drappo blu: come parlare di guerra di fronte a una manifestazione così viva degli effetti della guerra? Anche in ragione delle loro imponenti dimensioni, gli arazzi coinvolgono immediatamente il grande pubblico, come oggi solo i murales sanno fare. Non è un caso, quindi, che tanti artisti contemporanei abbiano approfittato della loro forza attrattiva per veicolare istanze politiche e sociali. Penso, naturalmente, ai capolavori di Boetti creati in collaborazione con le donne afghane, ad artisti come William Kentridge, che utilizza l’arazzo per commentare la storia dei popoli e le strutture di potere, agli arazzi leggeri come nuvole di Pae White, spesso contrapposti a oggetti ridondanti.

Dimenticato il suo aspetto polveroso, l’arazzo vive oggi un vero rinascimento, di cui si è vista una prova tangibile con l’inaugurazione, il 4 ottobre 2022, di un grande progetto a cura dell’ex direttore della GAMeC di Bergamo Giacinto di Pietrantonio. In occasione degli ottocento anni dalla consacrazione della cattedrale di Cosenza, lungo la navata centrale della chiesa sono stati installati sedici grandi arazzi disegnati da altrettanti artisti, tutti protagonisti della scena internazionale del contemporaneo. Si tratta di Stefano Arienti con L’Ultima Cena; Vanessa Beecroft con Gesù che purifica il tempio; Mariella Bettineschi con La Visita di Maria a Elisabetta; Michele Ciacciofera con Davide che trasporta l’arca dell’alleanza; Jan Fabre con Gesù guarisce dieci lebbrosi durante il viaggio verso Gerusalemme; Giuseppe Gallo con La guarigione di Naaman il Siro; Goldschmied & Chiari con Il sacrificio di Melchisedek; Debora Hirsch con La preghiera di consacrazione del tempio di Salomone; Ugo La Pietra con La costruzione della Cattedrale; Maurizio Orrico con La consegna della Stauroteca; Alfredo Pirri con La consacrazione della Cattedrale; Michelangelo Pistoletto con La gloria del Paradiso Terzo Paradiso; Luigi Presicce con La profezia di Natan al re Davide; Giuseppe Stampone con L’Assunzione della Beata Vergine Maria; Grazia Toderi con Il miracolo della peste; e infine Vedovamazzei con L’Annunciazione. Si tratta, come si vede, di soggetti religiosi in tutto analoghi a quelli interpretati da Raffaello nel suo celebre ciclo, con una destinazione analoga e soprattutto con una Chiesa che si riallaccia alla sua storia di grande committente, invitando gli artisti a farsi interpreti non di una spiritualità generica, ma della fede cristiana. Tra l’altro, di ogni arazzo sono state prodotte tre copie: una per la cattedrale, una per l’artista, un’altra per esposizioni in altre sedi. Gli arazzi – il paragone con il capolavoro di Raffaello al centro dei nostri studi si fa sempre più calzante – tornano a girare, diventano patrimonio universale. Certo le opere tessili degli artisti contemporanei, dalla Fiber Art in avanti, non si appendono più neanche ai muri: sono pittosculture, opere che hanno raggiunto la loro indipendenza e hanno vita a sé. Ciò non ostante, come l’arte digitale non cancella la pittura, le installazioni contemporanee non cancellano gli arazzi. Ci sono racconti che solo gli arazzi, con il carico dei gesti di chi li lavora, sono in grado di narrare. Ne sanno qualcosa Ananias a Saphira, i protagonisti dell’arazzo di Raffaello, o Procne e Filomena. Quest’ultima, violentata dal cognato Tereo, sebbene costui la avesse privata della lingua affinché nessuno conoscesse il suo misfatto, riesce a comunicare l’accaduto alla sorella tessendone le immagini su una tela.

La storia ahimè finisce tragicamente. Procne fa a pezzi il figlio e lo dà in pasto al marito. Sia come sia, i tre non soccombono all’orrore: nel mito Filomena diventa usignolo, Procne rondine, un’upupa Tereo. Il bello sarà pure, come scriveva Rilke, il principio dell’orribile, ma senza di esso come faremmo a sopportarlo? Lunga vita alla manifattura degli arazzi! 

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