Uno specchio dei tempi, con le consapevolezze accumulate in anni di lotte intestine, di egemonia culturale ed economica europea e di paradossali – denunciati a ogni costo per la loro ipocrisia – recuperi o travisamenti della tradizione nazionale e locale. “La mostra – scrive la curatrice Laura Burocco – riunisce una ricchezza di mezzi e materiali, dal video alla fotografia e fotomontaggio, sino ad installazioni pittoriche, attraverso i quali le artiste interrogano la definizione di un territorio di appartenenza e la costruzione di una identità sia unica che collettiva”.
Le tre artiste coinvolte nella collettiva provengono da differenti paesi, accomunati da alcuni sprazzi di insincero adeguamento e da parecchie sotterranee reticenze a vantaggio di un’affermazione pubblica identitaria. Karla Nixon (Durban,1990) è nata in una città costiera della provincia del KwaZulu-Natal, a est del Sudafrica, crocevia di influenze africane, indiane e coloniali (olandesi e inglesi), oggi famosa per il suo lungomare futuristico e posticcio, ristrutturato in occasione dei Mondiali di calcio del 2010 con un enorme parco a tema acquatico e soprattutto con il colossale Moses Mabhida Stadium. È intrinseca la correlazione tra la stratificazione ambientale e architettonica del paesaggio circostante e le opere di Nixon: le strisce di carta dipinta Dune II e Flood light and rain fall evocano una natura più astratta che reale, vivace, sagomando una distesa frondosa o desertica dentro la quale lo sguardo si perde. La carta ritagliata, eco di tecniche d’artigianato primitive reimpiegate in un sistema globalizzato che ne depotenzia il significato, si dispone in una texture tridimensionale e sensoriale, con tonalità cadenzate al fine di dilatare le sfumature (tra dipinto e scultura, collage e tessuto) e il gesto che le compone – gestualità sapientemente combinata e calibrata, forse culmine materializzato di anni di docenza nel programma Arts Extended Program presso la Durban University of Technology. Il senso di ordine geometrico e al contempo di smarrimento, soffermandosi sui dettagli delle tesserine ritagliate, colma con appagamento la vista come un mantra che si ripete sottile.
LegakwanaLeo Makgekgenene (Gaborone, 1995) è originaria del Botswana; dall’agglomerazione esasperata della sua capitale ha potuto trarre importanti considerazioni circa il senso della collettività, dei movimenti di massa e della squilibrata rapidità di crescita edilizia e commerciale dei centri di sviluppo postcoloniali nel continente. In particolare, i ‘falsi idoli’ della memoria nazionale, basata su un orgoglio identitario mai veramente reclamato dal popolo né risarcito dall’imperialismo, sono il materiale dal quale l’artista trae, come da uno scenografico archivio caotico di riferimenti di cui si è perduta la vera accezione, le figure per le sue ‘manipolazioni virtuali del folklore’: monumenti pubblici, scene di vita quotidiana, elementi della simbologia antica e immaginazione post-apocalittica si combinano in fotomontaggi-collage dalla inflessione surrealista e patinata. Le opere in mostra, parte di una serie presentata nella collettiva del Botswana Pavilion del 2022, sovvertono la narrativa nazionale utilizzando le sue stesse icone (ad esempio, la zebra e il colore blu) polemizzando sia sul tradizionalismo tossico e simulato, sia sul perbenismo vuoto del sistema dell’arte, che promuove un cambiamento sociale e individuale senza considerare i diversi contesti geopolitici e i loro gradi di tolleranza e libertà. Pur evitando un radicalismo acceso in senso opposto, Makgekgenene sostiene l’evoluzione dei movimenti femminili del Botswana ed esplora punti di accesso alternativi a pedagogie banalizzanti ed effimere.
Infine, la poliedrica Renée Akitelek Mboya (Nairobi, 1986) lavora in qualità di scrittrice, curatrice e regista tra la capitale del Kenya e Dakar e collabora con il Wali Chafu Collective. Quello di Mbyoa è un carotaggio consapevole nel sostrato etnico ‘pop’ della sua terra d’origine, doloroso e a tratti derisorio. L’interesse per le immagini simbolo dell’Africa svilite a mera espressione estetica della brutalità razziale e del divario con gli europei caucasici – si ricordi che Nairobi è, per esempio, considerata la capitale mondiale dei safari, attività tra le più emblematiche della supremazia colonialista in senso politico, ambientale e culturale; nonché il principale scalo aeroportuale verso i circuiti turistici del continente – è il fulcro del video A Glossary Of Words My Mother Never Taught Me, in cui frammenti cinematografici legati al periodo del colonialismo e materiali storici in passato considerati obiettivi e documentaristici, come Africa Addio del 1966, si intervallano in uno spietato carosello senza ulteriori inserimenti autoriali – l’artista sceglie di non comparire nei video per ‘restituire il protagonismo alle memorie e ai significati delle persone che questi archivi hanno voluto disgregare’ – al fine di testimoniare una narrazione violenta e deformata con l’impiego del montaggio serrato, straniante per lo spettatore ma efficace. And Salt The Earth Behind You documenta invece le celeberrima protesta di fronte all’Astor Cinema di Berlino nel 1966, piccolo fondamentale tassello per l’articolazione della coscienza nera nell’Europa occidentale dell’epoca.
La mostra, senza trito patetismo e anzi con una certa dose di amara ironia, riunisce una ricchezza di mezzi e materiali per cercare la definizione di appartenenza, di identità e di sentimento di collettività africane. Un successo nella lettura artistica di un’area geografica spesso succube di etichette forgiate all’occorrenza da un sistema fagocitante e che A Pick Gallery rimuove disinteressatamente in nome di una critica sincera e lucida.
Landscapes of Hidden Words
LegakwanaLeo Makgekgenene, Renée Akitelek Mboya, Karla Nixon
a cura di Laura Burocco
A PICK GALLERY
via Galliari 15/C, 10125 Torino
Martedì-sabato 15:30- 20:00
+39 349 3509087
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