Gerhard Merz
Francesco Scialò

Io è un altro: Francesco Scialò

Ho vissuto vari anni a Milano e, incredibile a dirsi, ho conosciuto milanesi nati a Milano da genitori milanesi figli di milanesi: oltre non ho avuto il coraggio di cercare. Nei loro discorsi la mia Sicilia era una terra, diciamo, misteriosa. Qualcosa di paragonabile alle carte medievali del continente africano con la scritta Hic sunt leones. Tutto questo per dire che, per i miei conoscenti, l’Italia finiva a Reggio di Calabria. Dove insomma dovrebbe sorgere, secondo una fantasia o miraggio ritornante, il ponte sullo stretto, si ergono invece le Colonne d’Ercole: alte e maestose come i Bronzi di Riace, o i Giganti di Numenor ne Gli anelli del potere. Forse in ragione di questa responsabilità morale – essere gli ultimi rappresentanti del paese della cultura ai confini del caos – forse perché, come accade quando si rovescia di botto una bottiglia, il liquido si accumula all’altezza del collo, a Reggio, e in generale in Calabria, l’ambiente artistico è folto e variegato. Ci sono tanti artisti, mi confidava un amico, quanti sono gli alberi del bosco della Sila. Alcuni secolari. Fermandomi, più modestamente, agli autori contemporanei, ho intervistato Francesco Scialò, già direttore dell’Accademia di Reggio, performer, scultore e artista concettuale.

A dispetto della lontananza dai centri nevralgici del sistema dell’arte, la Calabria è madre di numerosi artisti. Come lo spieghi?

Lavorare lontano dai centri nevralgici del sistema dell’arte è molto faticoso ma ha dei grandissimi vantaggi in termini di energia. Il disagio, le privazioni, le frustrazioni ti permettono di sperimentare cose assurde, di essere fuori dal coro, in un certo senso si è privilegiati. Personalmente sono cresciuto, e ancora vivo, nello stesso luogo: una delle periferie più degradate d’Europa. Questo mi ha aiutato tantissimo nella mia formazione in termini di pensiero. Abitare tra i rifiuti – e a tutt’oggi le cose non sono cambiate, anzi direi peggiorate – ha stimolato la mia creatività, essendo io, tra le altre cose, un accumulatore seriale. Ho anche provato in due occasioni a vivere come un senzatetto… 

Molto dipende, credo, anche dai musei e dalle esperienze nate negli ultimi anni come il Marca, i Bocs, il MAB, il Museo Bilotti Ruggi d’Aragona, il Museo del Presente…

In effetti in Calabria tanto è stato fatto da mecenati come Roberto Ruggi d’Aragona o dal comune di Cosenza con i Bocs. Tu, però, hai citato solo realtà museali del Centro e del Nord della Calabria. Nel reggino, dove vivo, realtà del genere sono molto lontane.

Nel 2022 si è però svolta dalle tue parti la prima edizione della Biennale dello Stretto, cui hai partecipato. Come è andata? 

Ho ricevuto l’invito da una bravissima gallerista e grande artista, Angela Pellicanò. L’esperienza è stata fantastica sia per il luogo, un forte militare di fine ottocento, sia per la possibilità di confronto con tutti gli artisti che vi hanno preso parte. Ecco, Andrea, questo spazio immenso e affascinante dovrebbe essere trasformato in un museo per l’arte contemporanea, ma la vedo molto dura.

L’installazione che hai presentato, water project(https://youtu.be/dJjlNEXoE3I), è una strana quadreria. Che cosa rappresenta?

Water project è un progetto enorme, composto da oltre mille opere, per tre anni di intenso lavoro. Alla Biennale ne ho esposte solo trecento. Tutto ha avuto inizio quando, nei boschi dell’Aspromonte, ho trovato un tappo di bottiglia d’acqua minerale e mi sono chiesto: “perché bere acqua minerale in un luogo dove ci sono tantissime fonti d’acqua, buonissime e sicure?”. Da qui è partita un’indagine sulle acque minerali, sulle multinazionali, sulle persone che fanno decine di chilometri al giorno per trovare l’acqua, sullo spreco dell’acqua dolce, sulla desertificazione… Ogni sezione del lavoro mi trasportava naturalmente a diversi argomenti. Di fatti, in parallelo alla ricerca sull’acqua, ne ho svolto altre sul territorio, sul degrado, sull’involuzione cui stiamo assistendo di un popolo che proviene dalla Magna Grecia, sulla ‘ndrangheta e sul suo controllo, e così via.

La tua ricerca artistica è tutto fuorché lineare. Quali, se ci sono, i tratti distintivi, i temi ricorrenti?

La diversità del mio lavoro mi ha sempre creato problemi, economici e strategici. I vari galleristi o curatori che ho incontrato in questi anni mi hanno sempre, e forse giustamente, abbandonato nel momento in cui non ritrovavano più il lavoro per cui mi avevano conosciuto. E tuttavia non posso farne a meno: ogni idea che ho necessita assolutamente di un linguaggio appropriato. Nessuno stile, nessuna stabilità mi hanno mai interessato.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Trascorro ogni giorno alcune ore in un piccolo bagno di servizio posto ad una estremità della mia abitazione, dove non è facile raggiungermi. Isolarmi da tutto mi regala visioni del domani. Nel mio futuro non ci sono, apparentemente, legami col presente o col passato. Ogni progetto sbuca dal nulla. Quando è nato, ho seri dubbi di averlo formulato io.