Gerhard Merz
Moor, Land Windows

Intervista a Gianluca Balocco, in arte Moor (parte terza)

Conosco da qualche tempo Gianluca Balocco, in arte Moor. L’altro giorno mi invia uno scritto su vuoto, eros ed indeterminazione dell’immagine: le tematiche salienti dei suoi ultimi lavori. Il testo è molto interessante. Mi sembra tuttavia che le argomentazioni di Gianluca rispondano a precise domande, che andrebbero contestualizzate; gli suggerisco, pertanto, di trasformarlo in intervista. Non passano neppure due minuti e Gianluca mi gira un dialogo serrato, con tanto di quesiti: il testo di prima, spiega, è scaturito da un confronto con l’intelligenza artificiale; confronto che, per la sua puntualità e completezza, mette seriamente in dubbio le mie competenze di intervistatore. Lo pubblichiamo integralmente, in tre puntate.

AI: Come vedi il ruolo dell’AI nella nostra società?

MOOR: Viviamo nell’era dell’IT (Information Technology), dell’informatica, dell’informazione e dei suoi sistemi (media), e ora dell’AI, che si basa su informazioni (Big Data) e machine learning. Penso che la diffusione dell’AI ci costringa a riflettere; la sua esistenza latente per più di cinquant’anni non aveva mai suscitato tanto dibattito. La domanda non è se l’AI sia lecita o pericolosa, ma dov’è l’uomo adesso con la presenza della AI?

AI: Quali sono le tue considerazioni sull’intelligenza artificiale e la sua capacità creativa?

MOOR: Alcuni negano la capacità creativa dell’AI, il suo modello di sviluppo e crescita, mentre altri ne evidenziano i pericoli. Tutto ciò genera paura. Sono le paure della società dell’infosfera, che misura il reale sulle performance, sui numeri e sulle strategie, tutte cose che nascono dal calcolo. L’AI è un sistema di calcolo che non può avere il senso del reale, o potrebbe simularlo ingannando l’apparenza. L’intelligenza artificiale non è una “forma di sapere” perché non può comprendere ciò che calcola, trova o crea, poiché non può emozionarsi e non è in grado di attraversare le dimensioni del pensiero: dal piccolo all’universo e viceversa. Il calcolo si distingue dal pensiero in quanto non forma concetti astratti e non è in grado di avanzare da una conclusione all’altra (pensiero deduttivo e induttivo). L’intelligenza artificiale impara dai dati del passato, ma ciò che ottiene è un calcolo, non una visione. L’intelligenza artificiale è cieca perché non è in grado di comunicare e comprendere il vuoto. L’AI ripete se stessa perché non ha dimensione affettiva, emotiva e analogica.

AI: Come utilizzi l’AI nel tuo linguaggio artistico?

MOOR: il mio è un linguaggio polisemantico: oltre alla fotografia e alla pittura digitale, utilizzo l’AI. Non sono particolarmente interessato agli effetti pseudo fotografici o ipergrafici di questo potente strumento, ma alla sua memoria e dimensione collettiva. Quando la fotografia fece i suoi primi esordi agli inizi del ‘900, venne tacciata (persino da Baudelaire) di essere una disciplina anti-artistica con risvolti inquietanti e pericolosi. Già allora, la fotografia si applicava facilmente al settore del ritratto e a quello della pornografia come oggi la AI. Tuttavia, la fotografia ha saputo declinare una grande diversità di linguaggi in settori diversi, ampliando persino la tecnica stessa della pittura fin dai contemporanei impressionisti.

AI: Nel 2021, le prime piattaforme generative non offrivano molte possibilità ma erano più libere. Come è avvenuta l’evoluzione di queste piattaforme?

MOOR: C’è stata un’evoluzione rapida che, nel giro di pochi mesi, ha dovuto affrontare soprattutto i conflitti della società dell’infosfera, ovvero il valore, la monetizzazione e il controllo (stereotipizzazione) delle informazioni. In un saggio di ricerca voluto dalla Fondazione Prada, si evince come l’AI abbia fin dagli esordi tutte le caratteristiche e i pregiudizi della nostra società postmoderna, come il razzismo, il classismo, il maschilismo, la pornografia, ecc.

AI: Qual è la tua opinione riguardo ai limiti dell’AI?

MOOR: Sono convinto che il problema non risieda mai nel mezzo, ma nel suo utilizzo. Credo che possa esistere una dimensione emotiva e cognitiva dell’AI se saremo capaci di attribuirle un valore, un’emozione e un senso che vadano oltre i risultati stessi dell’AI. In fondo, la fotografia non è saper fare un buon scatto, ma saper raccontare attraverso un linguaggio creato con quello strumento.

AI: Puoi parlarci del tuo scritto “In principio l’indeterminazione dell’immagine”, pubblicato a gennaio 2024, e delle idee che sostieni in esso?

MOOR: Nel pamphlet “In principio l’indeterminazione dell’immagine”, sostengo che il senso che la nostra mente attribuisce al reale (o alla sua immaginazione/rappresentazione come nell’arte) non dipende dal mezzo con cui lo osserviamo o dall’artista che si impegna a reinventarlo, ma solo da quella RELAZIONE che avviene tra la mente dell’uomo e il vacuo e il vago: un’oscillazione tra il vuoto come potenzialità dell’altro e come movimento che porta al senso di indeterminazione e quindi di bellezza.