Realizzata in collaborazione con l’Università di Palermo, A noi due, ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino è la nuova produzione del Teatro Biondo che ha debuttato in prima nazionale lo scorso 4 giugno negli spazi dello Steri Chiaramonte. Il Teatro, la cui stagione estiva prende il nome di Eroica, ha scelto di riaprire con un progetto fuori dagli schemi tradizionali, che scardina le convenzioni e si arricchisce di contaminazioni con il mondo dell’arte contemporanea.
Si inizia con un percorso installativo che attraversa una struttura architettonica in cui, tra il 1600 e il 1782, ha avuto sede l’inquisizione siciliana: il pubblico è invitato ad addentrarsi in dieci ambienti dove oggetti di uso quotidiano ricombinati tra loro si mescolano e si sovrappongono a ricercati paesaggi sonori, che intrecciano il passato reale del Bufalino scrittore a quello fittizio dei personaggi del suo romanzo. Tra questi, di grande impatto emotivo è Amaxofobia, in cui undici pannelli calpestabili ripropongono in un distillato grafico la strada dove nel 1996 l’autore ha perso la vita. Ci si trova, allora, a camminare sulla traccia lasciata a terra, fino ad inciampare nella scritta centoventisette, che, interrompendo il percorso all’esatto chilometro dell’incidente, diviene metafora di una rottura insanabile tra bianco e nero, tra verità e finzione, tra vita e morte.
Dopo aver attraversato questo universo sospeso – «che io mi sia tutto sognato? Che stia ancora sognando?» scandisce ritualmente una voce all’ingresso – lo spettatore si ritrova nel cortile esterno dello Steri, dove viene dotato di cuffie bluetooth. Accede così a una doppia dimensione scenica: quella fisica, realizzata dalla scenografa Giulia Bellé e quella sonora, creata dal sound artist Alessandro Librio.
L’unità espressiva di questo secondo spazio – quello performativo vero e proprio – si rivela nel continuo ribaltamento di prospettive, nel paradosso, nel gioco degli specchi o forse nell’ossimoro, tanto caro a Bufalino. Mentre gli interpreti performano su di una piattaforma quadrata che non lascia vie di fuga e inverte idealmente il concetto del carcere panottico, gli spettatori, disposti su sedute distanziate posizionate in ciascun lato del quadrato, sono chiamati a immedesimarsi nel ruolo di sorveglianti. E qui, l’ossimoro (reso possibile soltanto dalla mediazione tecnologica) è proprio il riuscire a sentirsi vicini, vicinissimi agli attori seppure a metri e metri di distanza.

Spiati costantemente da un pubblico che, avvolto nell’ombra, li circonda e ne ascolta ogni mormorio, ogni gesto, ogni movimento gli interpreti (Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino e Alessandro Romano), d’altro canto, restituiscono un complesso e delicatissimo gioco di relazioni che si evidenzia tanto nelle geometrie dei movimenti, quanto nelle diagonali degli sguardi. La continua ricerca di trasparenza nell’atto recitativo e di un rapporto uno-a-uno, inoltre, getta le basi per un altro straordinario paradosso: la lingua bufaliana – che ha come sua cifra distintiva una parola alta, poetica, baroccheggiante – risuona nelle orecchie di ognuno in forma immediata e quotidiana, nitida ma mai colloquiale. Particolarmente significative, allora, sono le prove di Briguglia e Lamantia, che si sottraggono dallo sforzo solipsistico della declamazione a cui per anni ci ha abituati un certo tipo di teatro istituzionale, e la cui eleganza espressiva riesce ad attrarre magneticamente l’interesse voyeuristico del pubblico, materializzando sul palcoscenico tensioni ed evocazioni.

In questo contesto la parola recitata (o meglio, bisbigliata) diviene parte integrante di un più ampio paesaggio musicale. L’alternarsi continuo di suoni distorti e realistici, preme l’acceleratore sulla quête di verità (anzi, delle verità sussurrate), che culmina e si spezza irrimediabilmente nel testamento del Governatore De Ritis (un ipnotico Paolo Briguglia), in cui la sua stessa esistenza viene messa in discussione.
Centrando l’attenzione sul pubblico e sulle sue esigenze in un momento storico in cui le più rassicuranti abitudini vengono meno, A noi due si colloca quindi al confine tra le arti performative e installative per dare origine a un’esperienza immersiva coinvolgente e totalizzante, da vivere in forma privata, raccolti nella propria compostezza. Compagna di viaggio e complice fedele del pensiero registico firmato da Giulia Randazzo, che affronta in modo lucido e propositivo tutte le problematiche di una ripartenza complessa, la tecnologia è il filo rosso che rende possibile la tessitura di legami intimamente preziosi con ogni singolo spettatore.
Nato dall’intento di celebrare il centenario della nascita di Gesualdo Bufalino, l’intera operazione rivela un tentativo ben riuscito di porre in dialogo più generazioni tra loro. Nel tessuto evocativo della drammaturgia, infatti, la distanza tecnologica si annulla a favore di una comunicazione che prende a prestito dal passato espressioni linguistiche desuete per gettare una luce sui grandi temi e traumi sempre profondamente attuali, sempre profondamente umani. Paradigmatica la scelta di affidare questa sfida – assolutamente vinta – a una giovane donna di trentacinque anni.