Gianni Iovacchini è un insegnante di scuola superiore in pensione. Iscritto alla FIAF da lungo tempo, è un docente del DiD ed è un BFI (Benemerito della Fotografia Italiana). La sua attività in campo fotografico è vulcanica, sia per quanto riguarda la produzione di lavori fotografici, sia per quanto riguarda i corsi che ha attivato, diretti ai fotoamatori, agli insegnanti, agli studenti, alla Fondazione Ordine degli Architetti di Pescara, al Touring Club Italiano e al FAI. È lettore di portfolio e membro di giurie anche a livello nazionale.
Gianni, raccontaci di questi tuoi viaggi e di come è nata questa tua mostra che hai intitolato “Appunti sparsi di viaggio”.
La mostra è la somma di tanti viaggi (Marocco, Georgia, Armenia, USA, Spagna, Abruzzo). Per me ogni occasione è buona per viaggiare, ma la cosa che mi preme sottolineare e che i miei non vogliono essere dei reportage. Come suggerisce il titolo sono “appunti sparsi” e forse anche confusi perché non hanno un filo conduttore se non quello della curiosità, della voglia di conoscere e di capire. Ci sono anche degli scatti “rubati” ma a me piace conoscere il soggetto da fotografare, cercare di comprenderlo. Non mi piace essere fotorroico o, come sento dire spesso, “dopo scelgo”: scatto solo quando sono convinto.
Come ti sei preparato? Intendo sia dal punto di vista tecnico che culturale.
Mi preparo leggendo. Mi piace studiare i percorsi (anche utilizzando Google maps), gli usi, i costumi, insomma tutte quelle notizie che possono aiutarmi al meglio a comprendere il Paese e la gente di cui per un periodo di tempo sarò ospite. Il mio viaggio inizia già da casa quindi.
Dal punto di vista tecnico porto con me due obiettivi, un 18/55 e un 70/300 montati su 2 mirrorless.
Cosa ti aspettavi e cosa invece ti ha sorpreso?
Le sorprese sono sempre le cose più belle del viaggio. Quest’anno in Tanzania ho scattato fotografie in missioni religiose. Avevo un’idea filmica di questi luoghi ma la realtà è ben diversa. Ho fotografato bambini in scuole molto lontane dalla nostra idea di scuola, ambulatori medici che svolgono un lavoro importantissimo pur con mezzi ridotti.
Cosa hai riportato dal punto di vista umano?
I viaggi sono un arricchimento sotto ogni aspetto. Dal punto di vista umano ho cambiato il significato del termine “non ho niente”: c’è gente che ha meno di niente però trova il tempo di sorridere.
C’è qualche episodio particolare che vuoi raccontarci?
C’è l’imbarazzo della scelta. Con piacere ricordo una domenica mattina quando ho accompagnato il sacerdote che celebrava la messa in un piccolissimo villaggio distante dalla missione. Con grande stupore ho scoperto che quel giorno si sarebbe celebrato un matrimonio. In men che non si dica mi sono ritrovato ospite d’onore e fotografo ufficiale.
Quali sono state le difficoltà tecniche che hai incontrato nel fotografare?
In Africa la lettura esposimetrica viene messa a dura prova: il contrasto è elevatissimo. Scattare in raw aiuta tantissimo per gli aggiustamenti che puoi fare in post produzione. Le batterie hanno vita breve.
Se dovessi ripeterlo, cosa cambieresti dal punto di vista tecnico e organizzativo?
In alcuni posti fuori dai circuiti turistici, parlare di organizzazione è alquanto “provvisorio”. Devi fare affidamento a chi ti accompagna al quale devi far capire il tuo scopo, le tue intenzioni fotografiche. Dal punto di vista tecnico cercherei una borsa con una imbottitura superiore, perché le vibrazioni e la polvere la fanno da padrona.
Come sei stato accolto da quelle popolazioni, sia come fotografo che come uomo?
Personalmente cerco sempre di farmi “accogliere”. Non tutti hanno il piacere di farsi fotografare; cerco sempre di rispettare le richieste di chi sta di fronte all’obiettivo, ma non nego che a volte uso stratagemmi per fotografare comunque.
Torneresti nello stesso posto o desideri visitarne qualche altro e perché?
Cerco sempre di visitare posti nuovi. Quest’anno a settembre insieme a degli amici dovremmo andare (Covid19 permettendo) in Alaska dove per clima e territorio l’approccio tecnico sarà ovviamente diverso.