Mario Margani, foto Gaetano Bognanni

Gemütlichkeit: Mario Margani

Durante la pandemia, il nostro Dario Orphée La Mendola e Mario Margani hanno realizzato una rassegna virtuale di “beni di conforto” che ha come immagine-simbolo un carrello della spesa: Gemütlichkeit. Dopo le risposte di Dario nella puntata precedente, la parola a Mario Margani.

Se cerco Gemütlichkeit su Internet mi appare un camino… perché avete adottato questa parola tedesca come titolo di una mostra virtuale?

È un termine difficilmente traducibile senza perdere una parte del suo significato. Lo stato d’animo corrisponde in parte al quel sentimento di comodità, sicurezza e agio legato al focolare domestico, benché il termine tedesco non faccia alcun riferimento esplicito né al calore né alla casa. È una disposizione d’animo rintracciabile oggi in diverse situazioni e contesti legati al consumo nel tempo libero e si potrebbe anche riassumere con il nostrano “sentirsi a casa propria”. Se il termine-significante può, bene o male, essere così tradotto, non credo sia possibile fare lo stesso pensando al suo significato, innestato in maniera imprescindibile nel contesto culturale di riferimento. Cosa ci fa sentire a nostro agio oggi? Quando avevamo terminato di raccogliere i materiali giunti a noi da tanti artisti e artiste, pensando a un titolo e ad un sentire comune, è venuta fuori la parola “Gemütlichkeit” su proposta di Dario, pensandola però nel nostro contesto globale di lockdown e consumo elevato a unica funzione umana permessa a molti durante alcuni dei mesi di chiusura. Quando ho proposto a Francesco Sgrò di occuparsi dell’impostazione grafica e di pensare a un simbolo che potesse tradurre visivamente il significato del termine tedesco, non avrei pensato al carrello della spesa pieno di prodotti che si trova sulla copertina della nostra pubblicazione. Ma quando me lo propose, mi sembrò subito una soluzione allo stesso tempo brillante, realistica e sarcastica. È il consumo che accomuna moltissimi esseri umani nel bene e più spesso nel male, superando barriere linguistiche, geografiche e culturali. Poco importa che si tratti del classico carrello di ferro o del carrello digitale. Specialmente un certo tipo di consumo e una certa indole legata all’accaparramento di prodotti in quantità sproporzionate sono il simbolo della risposta umana incontrollata e irrazionale a possibili eventi catastrofici. La proposta fatta da me e Dario a tanti artisti di intervenire nei luoghi del consumo e inviarci la documentazione dei loro interventi credo avesse già nel suo nucleo questo pensiero, che si è esplicitato nel processo di raccolta e realizzazione. E poi il carrello tornava anche nel breve ed esilarante racconto dell’incontro fatto da Dario all’uscita di un supermercato che ha dato il via al tutto.

Alla vostra rassegna hanno preso parte tanti artisti, italiani e stranieri. Come li avete selezionati?

Abbiamo invitato tanti artisti con i quali abbiamo avuto già in passato modo di collaborare, ma anche altri che immaginavamo affini a una proposta del genere. Direi che si è trattato di una preselezione molto spontanea. La scelta vera e propria l’hanno fatta gli artisti, accettando o declinando l’invito, per motivazioni molto diverse, ma tutte comprensibili. La nostra rispettiva rete di connessioni e conoscenze lavorative nell’ambito artistico ha generato un progetto con collaborazioni da diverse regioni europee. Oltre alla distanza geografica c’è anche molta varietà a livello anagrafico. Si tratta di un mix che difficilmente sarebbe stato realizzabile per una mostra. Ma sin da subito abbiamo deciso di allontanarci dall’idea di una mostra, evitando di associare il tempio novecentesco del consumo all’aura da museo, azione che già diversi progetti nel passato più o meno recente hanno compiuto, spesso – credo – in maniera non pienamente cosciente. Ci interessava, invece, proporre agli artisti di divertirsi e inviarci qualcosa. Le regole da noi fissate erano poche. E nonostante alcuni le abbiano in parte disattese, nessun intervento è stato da noi rigettato. Ci siamo resi conto in corso d’opera dell’anacronismo insito nel pensare il supermercato o altri luoghi fisici nati per la compravendita di prodotti, come luoghi principali del consumo oggi, quando il mercato corre attraverso i nostri occhi e il nostro corpo in qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi luogo pubblico e privato.

I vostri testi introduttivi – un titolo per tutti Caro D(i)ario – sembrano lettere d’amore. Avete mai litigato su un artista o un’interpretazione?

Quello è il titolo del mio testo. Non la chiamerei però lettera d’amore. Ma sicuramente è una lettera, un formato che mi è caro che ho ripreso per quel testo senza pensarci troppo.  Si tratta di una lettera, ma anche di un diario. Di fatto ci siamo visti poco con Dario, ma molto più telefonati, video-chiamati, scritti. Questo tipo di collaborazione incorporea si avvicina alla relazione con un’entità astratta su cui non si fa altro che proiettare le proprie volontà, paure e interessi. Dunque il finto formato epistolare associato a quello diaristico mi sembrava rispecchiasse al meglio lo stato d’animo in cui ero immerso durante la scrittura e sviluppo di “Gemütlichkeit”. Non abbiamo litigato su nulla, perché sin dal principio eravamo mossi dalla voglia di divertirci, di farci sorprendere e dalla curiosità. Siamo stati entrambi contenti di ricevere nel complesso un buon numero di risposte molto diverse tra loro e la diversità ci è sembrata una ricchezza. Le interpretazioni di molti interventi possono essere svariate, ma anche in questo vedo un valore e di certo non un problema. Probabilmente l’unica cosa su cui abbiamo dovuto accordarci è stata proprio quella di lasciare le porte aperte al gioco, all’interpretazione, alla volontà e libertà di ognuno e ognuna delle partecipanti.

La vostra mostra è stata una risposta alla clausura pandemica. Il mondo dell’arte da allora è cambiato?

Sono abbastanza refrattario a domande che considerino il mondo, e il mondo dell’arte, come qualcosa di omogeneo. Di conseguenza non posso rispondere sul punto di vista più generale. Vivendo da molti anni in Germania ho notato però un certo adattamento e avvicinamento nel modo di considerare l’artista in Italia alla stregua di un operatore sociale per la comunità, ruolo già ampiamente affermato in Germania attraverso i tantissimi fondi regionali e nazionali per progetti educativi e formativi sviluppati da artisti e istituzioni legate al mondo dell’arte contemporanea. La corsa ad accaparrarsi finanziamenti per progetti del genere è sicuramente aumentata di pari passo con l’aumento dei fondi messi a disposizioni dai diversi ministeri e dalle amministrazioni regionali e comunali. Nel complesso si potrebbe parlare di questa trasformazione in senso positivo. D’altra parte esistono sempre più corsi di studio in “Community-based art” e “Social-engaged art”. Non sono sicuro che anche in Italia questo tipo di offerta formativa sia già nata, ma credo si svilupperà presto. È una tipologia di approccio artistico che ben si accosta a giovani artisti indipendenti che non hanno legami con il mercato dell’arte e vogliono lavorare nello spazio pubblico o comunque nella sfera pubblica. Mi preoccupa però il fatto che in questo modo le istituzioni riescano a inglobare e rendere parte del sistema anche un folto gruppo di artisti che altrimenti potrebbero attraverso le loro opere e pratiche svolgere un ruolo negativo e non assertivo rispetto alla società, nel senso di apertamente critico contro i valori dominanti di una determinata società e non consenziente a tutti i costi. E mi preoccupa il fatto che si assottigli sempre più la differenza tra il ruolo del formatore/operatore sociale e quello dell’artista. Lo considero un depotenziamento. È un dato che riscontro nella mia cerchia di amicizie e conoscenze, con molti artisti e artiste che partecipano o organizzano progetti formativi e sociali e vivono attraverso i finanziamenti pubblici, più in Germania che in Italia, ma in maniera crescente anche nello stivale. Tra il serio e il faceto, parlando con diversi colleghi che lavorano a progetti artistici per bambini e adolescenti, rispondo che a me interessano di più gli adulti. Non so però fino a che punto questa trasformazione abbia a che fare con il periodo di clausura pandemica. Forse questo biennio ha accelerato tendenze in atto, a tutti i livelli e non soltanto in ambito artistico.

Nel regno del pluralismo e del politicamente corretto, la peste, la fame e la guerra vi hanno offerto qualche spunto che vi piacerebbe approfondire?

Nel regno della desertificazione sociale e ambientale di alcune regioni come quella siciliana, nell’era del depopolamento, calo demografico e continua emigrazione verso i grandi centri urbani nazionali e internazionali, mi viene da pensare che le migrazioni, siano esse di carattere economico o legate a conflitti, sarebbero la vera risorsa e possibilità di crescita sociale, economica e culturale per tanti luoghi che si stanno impoverendo di vitalità. Che i complottisti di destra la chiamino pure “grande sostituzione”, io sono a favore!