Nella lingua italiana l’impertinente è, per definizione,colui che è «fuor di proposito» e che «fa e soprattutto dice cose con cui viene meno al riguardo dovuto ad altra persona». Se l’altra persona, poi, altri non è che un cardinale divenuto pontefice, e se lo spazio dell’oltraggio coincide con la dimora di quest’ultimo, allora Aldo Mondino è davvero un artista impertinente.
Omaggiato da una bella personale bolognese, l’artista, nato a Torino nel 1938 e scomparso nel 2005, invade il cortile interno e le stanze al pianterreno di Palazzo Boncompagni, residenza bolognese del cardinal Ugo, a capo della chiesa cattolica – col nome di Gregorio XIII – dal 1572 al 1585. Impertinenze a Palazzo, questo il titolo della mostra curata, dal 30 gennaio al 10 aprile 2023 da Silvia Evangelisti, ripercorre, con sedici opere, la brillante carriera di un artista che, sin dagli esordi nei primi Sessanta, ha voluto svincolarsi da dinamiche collettive e collettiviste, opponendo alle ragioni del gruppo e alla riprogrammazione etica ed estetica della società una difesa strenua dell’autonomia creatrice e della massima libertà concessa all’artista nel “gioco serio” dell’invenzione. «Aldo Mondino – scrive la curatrice in catalogo – è un artista singolare, non riconducibile ad una tendenza precisa ma, piuttosto, ad un’area allargata di “eventi” artistico nei quali la scelta […] viene finalizzata a “mettere in scena” la realtà, decontestualizzandole e reinventandola sul filo sottile che unisce il gioco della mente al piacere dell’occhio e alla capacità camaleontica del suo cervello». Sulla difficoltà di posizionamento di un autore come Mondino, poi, si era espresso anche Marco Senaldi, curatore di una precedente retrospettiva bolognese del 2007: «Mondino – ha ricordato Senaldi – è sempre fuori posto rispetto al panorama circostante semplicemente perché sta al posto suo».
Se, nelle primissime uscite, le sue proposte pittorica non nascondevano affatto le ascendenze di certo Surrealismo – in particolare quello di Sebastian Matta e Wifredo Lam, conosciuti alla fine degli anni ’50 a Parigi – già con il ciclo su masonite dedicato all’infanzia e ai modi di disegnare dei bambini, l’artista sceglie la pagina quadrettata come strategia di azzeramento. Se il superamento dell’angoscia informale – ha scritto Maurizio Fagiolo nel catalogo della personale dell’artista torinese allo studio Marconi di Milano – andava risolvendosi nello specialismo dell’immagine dei singoli autori, l’offerta personale di Mondino si stava sintonizzando sulle lunghezze del gioco e sulle frequenze dell’infanzia, specie nella componente partecipativa e “relazionale”. Lavori come Gallo e Serpente, entrambi del 1963, fanno poi emergere anche la cifra di originalità di Mondino, il delta di separazione che lo distanzia dall’ortodossia pop d’oltreoceano. Ancora Senaldi, infatti, sottolinea come il punto di partenza di Mondino sia «una cultura che è sì di massa, ma è lontana dagli stereotipi americani, è la cultura media di un’infanzia tutta italiana, fatta di scolaresche, compiti a casa, palloncini e scuola guida». Gallo e Serpente uniscono la precisione del “compito a casa”, l’esattezza dei profili e del colore che sta nei bordi, con l’impertinenza del discolo – che strappa la pagina dal quaderno disegnandoci sopra un sole sbavato dal blu – e con la tensione politica del proletariato attivo, che nella “pagina” superiore di Serpente, lasciato libero di esporsi e di scrivere parole in libertà, oltre a prendersi gioco dei lettori, inneggia a Lenin e alla rivoluzione, “sponsorizzando” in via esplicita il partito comunista. In pieno clima poverista, e nella città (Roma) che aveva assistito già al maiale vivo di Richard Serra, alla “cornice” di canarini e al pappagallo di Kounellis (e, a breve, anche ai suoi celebri cavalli), Mondino fa il passaggio decisivo in direzione della vita – o della morte – presentando, nel dicembre 1968, allo Studio Arco d’Alibert di Mara Coccia, l’Ittiodromo: la mostra consiste in una serie di installazioni con pesci veri, lasciati a sanguinare su una tela bianca poggiata a terra, intrappolati in un piccolo canestro o ancora abbandonati, nell’ultimo gioco, su un piccolo scivolo. In una fotografia di Fabrizio Garghetti, presente in mostra, Mondino li annusa, avvicinando il naso a una struttura a parete, su più livelli, sulla quale sono appesi e disposti l’uno accanto all’altro.
La componente olfattiva, che espande il lavoro di Mondino aprendolo a una dimensione sinestetica, torna, ed è certamente più piacevole, nella Sala delle Udienze papali, con Scultura un corno, del 1980: cinque elefanti in cioccolato, di dimensioni gradualmente più piccole, sono disposti l’uno sopra l’altro e leggermente inclinati in modo tale da richiamare, per l’appunto, un corno. Il profumo del cioccolato si mescola poi all’aroma dei chicchi di caffè che, variamente tostati, compongono il grande tappeto di Mekka Mokka (1988): il titolo dell’opera, posizionata al centro della Sala – dove trova posto anche un Trofeo di caccia (1996)che sostituisce alle corna di un animale morto delle gambe femminili – consente un’incursione più precisa all’interno del pianeta personale di Mondino, dove il linguaggio sveste i panni ufficiali dell’analitica concettuale e torna a farsi compagno di giochi dell’artista. «Quello che non mi piace molto del concettuale – ha confessato l’artista a Maurizio Cattelan, omaggiato in qualità di Professore di Trento, ritratto pittorico del 2004 – è che mi sembra di conoscere l’opera prima che sia terminata, invece mi piace che un’opera, una volta terminata, mi sorprenda». Al contrario, nel “Mondo Mondino”, come nel “Mondo Pascali” (si pensi ai Bachi da setola) o nel “Mondo De Dominicis” (Mozzarella in carrozza), la parola vuole divertirsi, e far divertire, nella meraviglia dell’inaspettato. Mondo Mondino, dunque, ma in Galassia Wittgenstein: è con il filosofo tedesco – ricorda Evangelisti – che l’«osservazione dei giochi linguistici arriva a fornire il «primo e fondamentale terreno d’indagine filosofica». Nella Sala centrale, affrescata da maestranze tibaldesche, il linguaggio continua a svelarsi nelle sue contraddizioni strutturali, nell’indefinibilità degli esiti, anche in opere come La mamma di Boccioni (1992) o Jugen Stilo (1993). Nella prima, due palle da bowling fungono da veri e propri seni, completando un busto “antigrazioso” in bronzo preceduto da uno studio a matita realizzato negli anni ’70 e da una versione originale in caramelle alla menta. Nella seconda, un grande lampadario ellittico con penne BIC “incornicia” idealmente l’ovale con la Decapitazione di Golia: in questo caso il titolo fa il verso allo Jugendstil, la declinazione austro-germanica dell’Art Nouveau, allargando le ipotesi del gioco oltre i confini “nazionali”.
Il cognome dell’artista torna al centro delle indagini linguistiche in Mon Dine: nella grande tela, davanti alla quale l’artista si è fatto immortalare da Fabrizio Garghetti (la fotografia è esposta in mostra), Mondino sorride al cospetto del “suo” Dine, nella vestaglia – rossa, in questo caso – resa iconica dal pittore americano. Con Pounds (2001) Mondino estende il gioco all’inglese: i sette ritratti in bronzo, di dimensioni variabili, di Ezra Pound portano lo spettatore al cospetto di un inganno che è triplice: la parola che intitola l’opera può infatti riferirsi tanto al cognome del poeta quanto ai pesi differenti dei piccoli busti o, ancora, alle lucentezze metalliche delle monete, i pounds inglesi. Dalla verità del bronzo, la ricerca di Mondino giunge alla simulazione dell’oro: in Eldorado (2000), i cioccolatini Peyrona agiscono come blocchi minimi di costruzione, come “lingotti” che, posti uno sopra l’altro, innalzano lo skyline di New York. In The byzantine world (1999), i rivestimenti policromi dei cioccolatini tornano, come tasselli di un mosaico – tecnica appresa con Gino Severini a Parigi – a ricreare la visione frontale della Basilica di Santa Sofia a Istanbul. Se «imparando il mosaico si imparava anche un mestiere», confessa Mondino in una video intervista, rilasciata a Garghetti e proiettata su uno schermo posto nei pressi del cortile interno del palazzo, il materiale particolare delle tessere, il cioccolato – come anche lo zucchero – è l’emblema di una società ricca, dell’esplosione consumistica e del riscatto di una generazione che «queste cose dolci le ha molto sognate durante la guerra». La verve cromatica, l’allegria del pattern del mosaico, torna poi in Tappeti stesi (1993): qui la trama sfilacciata dell’eraclite (o tamburato) restituisce con un alto grado di realismo la puntualità del disegno e la matericità dei tappeti orientali. Il ciclo dei tappeti, intrapreso a partire dagli anni ’80, rappresenta, per Mondino, uno dei frutti più maturi di un’avventura, quella della pittura-oggetto, intrapresa già vent’anni prima e con la quale egli, ancora per Fagiolo, rovescia i presupposti di Rauschenberg e Dine: se quest’ultimo «vuole mettere la poltrona nel quadro – scrive il critico – Mondino […] vuole mettere il quadro nel divano». Egli, continua Fagiolo, «non vuole che l’arredamento diventi quadro ma che il quadro diventi arredamento».
Nella Serra del 2004, Mondino esplora l’arredo da giardino, e i suoi fiori dipinti a olio su linoleum, protetti da una lastra di vetro, entrano in conversazione con la Viola d’amore, del 1985, ma soprattutto con la grande magnolia del cortile, a sua volta fiancheggiata da un’altra scultura in bronzo, Gerusalemme (1988). Questa scultura, posta a testimonianza della pacificazione con le origini ebraiche della sua famiglia, è una palma rudimentale, le cui fronde non vengono più agitate per accompagnare l’ingresso di Cristo in città, bensì fungono da attaccapanni, in qualità di supporti che accolgono tre copricapi ebraici e un borsalino. In linoleum, poi, è anche Turcata, quadro del 2001 appartenente alla celebre serie dei Dervisci, glii asceti sufi, che per mezzo della rotazione del corpo raggiungono uno stato di trance, hanno poi eseguito la loro tipica danza rituale in occasione della Biennale di Venezia del 1993. Qui, a Mondino venne assegnata da Bonito Oliva una sala personale, uno spaccato di quel “mondo” altro, dove non c’è spazio per professioni di fede, per l’adesione partitica a tendenze e controtendenze: Mondino – ha scritto A.B.O – «era un artista precocemente post-modern, che la lavorato sulla frammentazione, sulla contaminazione e utilizzava una leggerezza che sdrammatizzava», e proprio per la sua “non territorialità”, continua il critico, «emergerà come artista del nomadismo, dell’eclettismo e come colui che ha veramente anticipato la post-modernità».
Aldo Mondino. Impertinenze a Palazzo
a cura di Silvia Evangelisti
30.01-10.04.2023
Palazzo Boncompagni
Via del Monte, 8 40126 Bologna
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