Angela Vettese

“Essere connessi”: Angela Vettese

Tra i molteplici – e qualificati – incarichi ricoperti, Angela Vettese è stata pure direttrice artistica di Arte Fiera Bologna nell’edizione 2017 e nel 2018, quando ha pure organizzato un interessante convegno Tra mostra e fiera: entre chien et loup, dove si è discusso dell’ibridazione sempre più avanzata tra fiere e mostre vere e proprie. La abbiamo intervistata, come persona informata dei fatti, relativamente a tematiche altrettanto stringenti quali la digitalizzazione massiva e lo stato di salute del sistema fieristico italiano.

Negli anni Ottanta gli economisti suggerivano di “affamare la bestia”: più la crisi morde, più il sistema si fa competitivo. Pensa che il concetto possa applicarsi anche al mondo delle fiere?

Credo che le fiere debbano soprattutto diversificarsi in termine di target, altrimenti non sopravvivono. In Italia sono moltissime, troppe per occuparsi tutte dello stesso bacino di collezionisti. La crisi c’è? Non ne sono sicura.  

Nella domanda precedente mi riferivo soprattutto agli effetti della pandemia. Che in fondo ha implementato tendenze già in atto, come la digitalizzazione dilagante.

La digitalizzazione dilaga, ma l’oggetto-opera è un feticcio che non credo possa essere dimenticato. Sarà affiancato da altri sistemi di produzione e vendita, ma mai del tutto sostituito, credo.

Di solito, a fiera finita, sono tutti felici e contenti. Su quali parametri misurare il successo o l’insuccesso di una fiera?

Dalle vendite e dall’eco delle proposte culturali. Per vendite non intendo quantità solamente, ma anche qualità: se a Bologna (ne parlo perché ho avuto il polso delle alleanze politiche e del collezionismo locale) comperasse il Comune, incrementando le collezioni pubbliche invece di spendere per mostre che durano pochi giorni, i galleristi aderirebbero con più entusiasmo. Anzi sarebbe l’unica via di scampo per molte fiere e in alcune città lo si è capìto da tempo. E per non disperdere denaro pubblico in cose effimere, anche se più visibili di quelle durature. Perché non è affatto vero che a fine-fiera i mercanti siano tutti contenti, anzi molti mi hanno esplicitamente detto che non partecipavano perché la fiera non garantiva acquisti pubblici. E i collezionisti italiani amano comperare all’estero, quindi non sono una garanzia. 

In Italia, a dispetto di un mercato relativamente piccolo, le fiere d’arte abbondano. Non sarebbe il caso di applicare anche a quest’ambito il “metodo Tosatti”?

Non è detto, c’è posto per tutti se si segmenta l’offerta. 

Direttori di fiere e di musei, come artisti e curatori, sono sempre più spesso intercambiabili. La Bonacossa, per dirne una, è andata a dirigere a Milano il Museo dell’Arte Digitale, mentre Fassi, che dirigeva il Man di Nuoro, è tornato ad Artissima a Torino. Non c’è il rischio che le fiere diventino sempre più simili ai musei (e i musei alle fiere) senza esserlo realmente?

Stiamo parlando di due persone altamente professionali, che sarebbero brave anche come Art writer, teorici o curatori. E in generale non farei moralismi: c’è chi sa lavorare nell’arte contemporanea proprio perché ha esperienze diversificate. L’importante è che non ci siano interessi privati in atto pubblico.

La sospensione forzata degli eventi massivi – ultima in ordine d’arrivo, quella di Arte Fiera, che apre con svariati mesi di ritardo – ha indotto i galleristi a sperimentare altri format: Italics Art and Landscape, ad esempio, tenta un aggancio più diretto col paesaggio, umano e naturale.

Ma senza grandi risposte, che io sappia.

Se Atene piange, dicevano i greci, Sparta non ride. Il panorama straniero, da Art Basel a Frieze, ha qualcosa da insegnarci? 

Ci insegna che occorre essere connessi: una fiera deve interfacciarsi con le istituzioni al massimo livello, possibilmente in termini culturali e come promozione di un territorio.