Eleos. Figlio della Notte. Ad Atene esisteva il suo unico altare. Qui gli stranieri si recavano per chiedere “misericordia” e “pietà”. Forse però la traduzione migliore del suo nome è compassione. La pietà latina è troppo legata a un discorso istituzionale, mentre la misericordia, la commozione del cuore, implica un amore senza limiti, che va al di là dei meriti di chi la riceve. La compassione ha, al contrario, una precisa misura. Scaturisce da un implicito confronto tra lo stato di chi la prova e la condizione di chi la ha suscitata. Tanto più grande sarà il divario, tanto più dense e salate le lacrime. Ma cosa accadrebbe interrompendo il contatto tra compassionevoli e compatiti? Cosa accadrebbe, intendo, sottraendo al nostro sguardo la materia del soffrire? Facciamo un solo esempio. Tutti conosciamo il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, nella chiesa bolognese di Santa Maria della Vita. In questo capolavoro assoluto dell’arte rinascimentale, Cristo giace al suolo e, attorno a lui, gli uomini riflettono e contemplano, mentre le donne strillano, corrono, si danno al compianto più sfrenato. Da un lato i primi sono obbligati a non perdere il controllo; dall’altro le seconde hanno il dovere morale di inscenare una tragedia. Bene, ipotizziamo che il cadavere di Cristo non giaccia più schiacciato al suolo. Che dico: disperdiamo la compagine, limitandoci a coglierne immagini slegate.
È esattamente quanto accade nel lavoro di Alberto Criscione. Con una sola differenza: a mancare non è tanto la vittima, quanto l’aguzzino. La sua Veronica dal velo grottesco, il suo San Sebastiano senza gambe, la donna che impreca, l’uomo anziano con in braccio un bimbo martoriato, sono figure urlanti senza voce. O, per meglio dire, siamo noi a ignorarne la drammatica storia. Le mani che si tendono al drappo della donna lo fanno in cerca di aiuto o piuttosto per strapparglielo di dosso? La smorfia dell’uomo con il bimbo sul petto è il delirio di un padre impazzito dal dolore o il riflesso condizionato di un crimine aberrante? E chi può dirlo? Dovremmo dunque ammettere, in assenza di contesto, che la colpa è onore e l’amore crudeltà? È stato fatto, e non solo in scultura. Abbiamo visto la realtà piegata ai dogmi di una comunicazione truffaldina che, imbonendoci con scandali, barzellette, spettacoli da circo, ci ha distratto dalle nostre stesse storture e falsità. Sentiamo, in lontananza, i passi del nemico. E tuttavia non esitiamo a negarne la presenza minacciosa. Puntando il dito sul vuoto delle cause, l’arte di Alberto è un invito a ricercarle. A distinguere tra compassione e carità. Non esitiamo a provarci col sogno o col pensiero, ricostruendo le parti che la scultura non rivela. Potremmo persino accorgerci, come Maria Maddalena, che il cadavere è assente perché la Vittima vera, ormai risorta, sta davanti ai nostri occhi.

Alberto Criscione nasce a Ragusa nel 1981. Figlio d’arte, impara i rudimenti della scultura nella bottega del padre Giuseppe, presepista conosciuto in ambito internazionale. Inizia a lavorare giovanissimo, realizzando progetti monumentali per le chiese e scenografie museali nella provincia di Ragusa.
Dopo anni di esperienza maturata nel campo dell’Arte Sacra, decide di avvicinarsi all’Arte Contemporanea, e intraprendere così un nuovo percorso di sperimentazione. Criscione fa parte della generazione di mezzo dei talenti artistici in Italia, e quello che contraddistingue il suo lavoro sono la narrazione contemporanea, la visione poetica e le straordinarie doti di scultore, che ne fanno uno degli artisti più interessanti del panorama nazionale.
Dopo vari riconoscimenti e numerose mostre personali e collettive, le sue opere sono oggi presenti in Italia e all’estero in collezioni pubbliche e private.