Fino al 16 febbraio la Collezione Maramotti presenta due mostre: Che si può fare, la nuova mostra di Helen Cammock, vincitrice della settima edizione del Max Mara Art Prize for Women, e Rhizome and the Dizziness of Freedom prima mostra personale in Italia della giovane Mona Osman.
Helen Cammock, vincitrice della settima edizione del Max Mara Art Prize for Women e nominata al Turner Prize 2019, dopo la prima tappa londinese alla Whitechapel Gallery di Londra (25 giugno – 1 settembre 2019) presenta la nuova mostra Che si può fare alla Collezione Maramotti, che ne acquisirà le opere. L’allestimento, rielaborato dall’artista nello spazio differente della Collezione, sarà anche arricchito da un libro d’artista realizzato in luglio all’Istituto Centrale della Grafica di Roma. Nell’opera di Helen Cammock si intrecciano la narrativa femminile incentrata sulla perdita e sulla resilienza con la musica barocca composta da musiciste del Seicento, ispirazioni e racconti attraverso cui l’artista ha esplorato il concetto del lamento nella vita delle donne attraverso storie e geografie. Oltre al libro d’artista recentemente realizzato, la mostra include un film, una serie di incisioni su vinile, un fregio serigrafato e una stanza di ricerca in cui sono esposti libri e oggetti raccolti da Cammock e a lei donati durante il suo periodo in Italia. La mostra è infatti il risultato di una residenza italiana di sei mesi nel 2018, organizzata da Max Mara, Whitechapel Gallery e Collezione Maramotti, e ideata a misura dell’artista. Nel suo percorso, che l’ha portata a fare tappa a Bologna, Firenze, Venezia, Roma, Palermo e Reggio Emilia, Cammock ha deciso di esplorare l’espressione del lamento e riscoprire voci femminili nascoste. Nel corso della residenza musiciste, storiche, artiste e cantanti hanno aperto i loro archivi e condiviso narrazioni e ricerche. Il video in tre parti che è al cuore della mostra consiste in interviste con alcune delle donne che Cammock ha incontrato nel suo viaggio, tra cui attiviste nel sociale, migranti, rifugiate, una suora e donne che hanno combattuto la dittatura. L’opera rievoca il potere delle voci femminili dall’epoca del Barocco all’Italia di oggi. Le loro testimonianze sono intercalate con brani musicali e filmati girati in Italia in un complesso collage visivo e orale. Cinque stampe dai colori saturi rappresentano musica e voce mediante disegni al tratto e un lungo fregio a parete contiene immagini e parole legate alle donne che Cammock ha incontrato in Italia. Che si può fare riprende il titolo di un lamento preoperistico del 1664 della compositrice italiana Barbara Strozzi (1619-1677). Cammock ha preso lezioni di canto lirico per imparare quest’aria, sulla quale si è esercitata nel corso di tutta la sua residenza. La musica è un elemento ricorrente nella nuova opera video e nella performance dal vivo che avrà luogo durante l’inaugurazione della mostra: Cammock eseguirà la musica di Strozzi accompagnata da una trombettista jazz, facendo così rivivere l’eredità della compositrice attraverso la sua voce. La musica della coeva musicista italiana Francesca Caccini (1587-1641) viene incorporata nella performance come colonna sonora ad accompagnare la parte di movimento. Strozzi e Caccini erano famose presso i loro contemporanei, ma ben presto i loro nomi sono caduti nell’oblio e soltanto ora le loro composizioni vengono riprese ed eseguite ancora una volta. Poetessa visiva i cui disegni, stampe, fotografie e filmati si affiancano a parole e immagini, Cammock porta avanti una pratica artistica multimediale in cui abbraccia testo, fotografia, video, canzone, performance e incisione, ed è determinata dal suo impegno a mettere in discussione le narrative storiche tradizionali sull’identità dei neri, delle donne, sulla ricchezza, sul potere, la povertà e la vulnerabilità. L’artista attinge dalla sua esperienza personale, insieme a riferimenti a storie di oppressione e resistenza, incorporando influenze provenienti da jazz, blues, poesia e danza, oltre alle parole di scrittori come James Baldwin, Maya Angelou e Audre Lorde. Cammock scava e riporta in superficie voci perdute, inascoltate o sepolte. Per l’artista, la musica – da Nina Simone e Alice Coltrane alla seicentesca musica preoperistica italiana – consente di perseguire questa ricerca che esplora la complessità del concetto di storia.
Helen Cammock, Chorus 1, 2019, still del film, video HD 3 schermi. Courtesy and © Helen Cammock Helen Cammock, Chorus 1, 2019, still del film, video HD 3 schermi. Courtesy and © Helen Cammock
Mentre con Rhizome and the Dizziness of Freedom Mona Osman, giovane artista cresciuta e vissuta tra Budapest, Nizza, Londra e Bristol, presenta un ciclo di nuovi dipinti realizzati per la Pattern Room della Collezione. Osman ha lavorato contemporaneamente a tutte le nuove opere, in cui si ritrovano influenze e rimandi derivati da un lavoro concepito nello stesso tempo, in un unico spazio: l’ultimo anno, nello studio dell’artista. Introdotta da un trittico di ritratti allestito su una parete esterna della sala principale, la mostra include tre grandi tele e due di medie dimensioni, tutte realizzate con olio e tecnica mista su tela. Partendo dall’idea di affiancare episodi biblici a nozioni tratte dalla filosofia esistenzialista – e con l’intento di porre domande, più che di offrire risposte – Osman ha sviluppato pittoricamente una densa riflessione teorica e spirituale sulla ricerca del Sé. Secondo l’artista, l’ambizione dell’uomo di pervenire a una comprensione assoluta e immutabile della sua essenza individuale si scontra con l’impossibilità di definirla, generando angoscia e sofferenza. Due elementi ricorrono nelle opere in mostra: l’idea della Torre di Babele e quello che Osman chiama “Absolute Self”, il Sé Assoluto. La Torre di Babele, simbolo dell’atto di superbia dell’uomo di elevarsi verso il cielo e della conseguente punizione divina, diventa paradigma dell’impossibilità di comunicazione tra gli individui e della derivante condizione di solitudine, dell’assenza di un “altro” attraverso il quale riconoscere noi stessi. Il Sé Assoluto rappresenta la versione ideale e monolitica del Sé che cerchiamo di delineare e a cui tendiamo, senza mai davvero riuscire a raggiungerla. La realtà e l’esperienza inevitabilmente sfuggono al controllo, dischiudono scoperte inattese e mutamenti imprevedibili. Come il Sisifo di Camus, felice perché nella sua condanna diventa consapevole dei propri limiti e assume su di sé il proprio destino, l’uomo dovrebbe accettare la sua indefinibile condizione esistenziale e trovare appagamento in una dimensione più aperta e permeabile, abbandonando la sua volontà di chiarezza e di avanzamento perpetuo. Osman si è dedicata fin dall’infanzia alla pittura e al disegno, attraverso i quali porta avanti un’investigazione delle percezioni e delle tensioni dell’uomo, spesso legate a uno stato di ansietà. Ispirandosi a esperienze radicate nella sua storia personale, l’artista costruisce scenari gremiti di personaggi e narrazioni con cui indaga questioni esistenziali universali e le dinamiche di relazione tra gli individui. Le tele, che presentano diversi livelli di profondità e di visione, sono densamente popolate di personaggi, pattern ed elementi che non appartengono a una dimensione e a un tempo definiti.
Lo sguardo è spinto a spostarsi da un dettaglio all’altro, esplorando la superficie dell’opera attraverso ritmi variati, associazioni e rivelazioni improvvise. Connotato da pennellate corpose e da colori intensi, il suo linguaggio pittorico incorpora anche resina e collage, con cui Osman costruisce un’articolazione formale della superficie delle opere, in cui echi e stilemi di artisti come Klimt, Ensor e Mondrian appaiono liberamente rielaborati e inglobati senza evidente premeditazione né citazionismo.
Mona Osman, No Such Thing As Black and White, Just a Multicoloured Anatomy, 2019, olio e tecnica mista su tela, 210 x 255 cm © the artist. Courtesy C&C Gallery, London Mona Osman, Eaten by Facticity, 2019, olio e tecnica mista su tela, 120 x 155 cm © the artist. Courtesy C&C Gallery, London