Svizzera, Canton Grigioni, Val Engadina, Scuol, Nairs. Piccolo Tibet delle Alpi engadinesi, dove il dolce idioma romanzo, il romancio, è ancora parlato e dove non si respira solo aria pura ma anche cultura. Da Nietzsche, Rilke, Thomas Mann a Segantini a Gerhard Richter, Richard Long, Julian Schnabel, sono solo alcuni degli intellettuali e artisti che hanno frequentato o frequentano questa magica valle. È proprio in questi scenari che Andrea Muheim ha incorniciato la sua recente ricerca artistica. La mostra Der Mensch nimmt, sammelt und stiehlt, was er will (L’uomo prende, raccoglie e ruba quello che vuole) e il catalogo Zwei monate in Nairs (Due mesi a nairs).
Idee e immaginazione ritornano e si dilatano su alcuni concetti: luce e tempo, mutazione e àlea, durata e memoria, ascolto, intervallo e silenzio. L’attenzione di chi guarda collega scenari diversi, è impossibile però non vedere il filo che unisce opere molto dissimili per tecniche e materiali. La velocità della luce è forse il pensiero. La velocità del suono è forse la memoria, il tempo. Tempo e luce lavorano l’esistente, lo trasformano. Respiro, rigore, visione, mutazione, rarefazione, rallentamento, silenzio, tranquillità, tempo che interagisce con l’opera. Il lavoro del tempo. Tempo, storia. Vedere è leggere i segni del passato e presagire il futuro. L’arte di Andrea Muheim è silenzio, pausa, meditazione.
Dall’intreccio tra tempo, scelta, àlea e trasformazione nasce la scultura s.u.z.: “in quest’opera emerge il concetto fondante del mio lavoro: il tempo come attrezzo che modella, trasforma, consuma ogni cosa. Vorrei riuscire a visualizzare il tempo che l‘occhio non riesce a vedere. Il tempo, se si riuscisse a fermarlo, ci permetterebbe di vedere il suo percorso”. E ancora: “il tronco è stato modellato dal tempo che ha trascorso fra l‘acqua (il tornio) e il muro (lo scalpello). Non è necessario farla/crearla, l’opera si può semplicemente scoprire”.
Intervallo, pausa, tregua, silenzio, ascolto. Dobbiamo riconsiderare l’importanza del fattore diastematico, sosteneva Gillo Dorfles in L’intervallo perduto. Il filosofo dell’estetica segnalava che la perdita dell’intervallo, causata dal sovraccarico di segnali che caratterizza la vita contemporanea, anestetizza la sensibilità e produce una perdita di senso e delle capacità percettive. Importante è allora reintrodurre il fattore diastematico nella creatività. E “rifiuto del troppo pieno, del troppo rumore (non solo nel senso del brusio e del frastuono, ma anche nel senso usato dalla teoria dell’informazione: rumore come opposto di informazione e dunque confusione di ogni messaggio)”.
Che il silenzio non sia solo la negazione o l’interruzione della comunicazione, ma un mezzo di espressione di pensieri ed emozioni è convinzione che risale ai primi retori, sostenevano che un bravo oratore non solo deve saper parlare (persuasivamente), ma anche tacere (efficacemente). Il silenzio è messaggio. La scelta di non dire è un atto linguistico. La ricerca artistica di Muheim è caratterizza dal silenzio, dall’intervallo. Ha come colonna sonora ideale le musiche di John Cage e Morton Feldman. Il respiro del silenzio.
Le opere dell’artista svizzero si inseriscono “nell’ambito della ricerca attorno al concetto di archivio che l’artista porta avanti da tempo. Archivio inteso come il bagaglio che ognuno di noi inevitabilmente (e inconsciamente) costruisce con il passare degli anni e che ogni giorno si accresce di aneddoti, eventi, immagini, parole e impressioni. Utilizzando sapientemente varie tecniche (dalla fotografia al disegno, dalla pittura alla scultura), l’artista esplora il suo archivio personale mosso dalla curiosità e dal desiderio di creare nuove associazioni fra gli elementi disparati che lo compongono, intersecando ricordi, riferimenti alla storia dell’arte e all’attualità”, scrive con estrema acutezza Francesca Bernasconi (curatrice del Museo di arte di Mendrisio) nel testo che presenta il catalogo della mostra, e continua: “Così, ad esempio, in Hände restituisce a un nuovo sguardo l’immagine delle mani in preghiera ritratte da Albrecht Dürer, capolavoro logorato da infinite riproduzioni, icona pia riprodotta sui gadget più disparati […] Realizzato con la medesima minuzia dell’originale, il disegno di Muheim ne capovolge la composizione e i significati che col tempo ad essa si sono associati: non più testamento di fede, bensì monito nei confronti dell’atteggiamento impaziente ed egoriferito di Donald Trump, a cui appartengono le mani riprodotte fedelmente a partire da una fotografia di cronaca”. Attraverso il processo che ha portato alla creazione dell’opera itopinonavevanonipoti l’artista riflette sul rapporto tra società contemporanea e ambiente naturale. Muheim si è inerpicato in val Zuort e a 2248 metri d’altezza ha prelevato una pietra dalla quale ha in seguito ricavato una fusione in bronzo. ‘L’uomo prende, raccoglie e ruba ciò che vuole’ senza preoccuparsi del destino di ciò che lo circonda: per questo l’opera si è completata quando l’artista ha ‘saldato il debito’ nei confronti della montagna, collocando la fusione nel luogo esatto in cui aveva prelevato la pietra da cui essa è stata ricavata. “Il titolo palindromo evidenzia la volontà di instaurare un rapporto di reciprocità con la natura, un prendere inscindibile dal restituire, ma al tempo stesso non significa nulla e rispecchia il sentimento dell’artista che si interroga sul senso dell’azione che ha compiuto”. Anche in questa opera-azione, ritorna il fattore diastematico: la riflessione sulla pausa, la tregua, l’intervallo, il vuoto, la sottrazione. L’immaginazione di Muheim è nel mondo. Nel suo lavoro è sempre implicito l’agire, il pensare al mondo, pensare al sé, proprio perché vedere è pensare e l’espressione è azione. Silenzio, ascolto, memoria, tempo, luce, mutazione. Non c’è contraddizione tra archivio esistenziale e memoria storica, tra intelligenza interiore e collettiva.
Andrea Muheim è nato a Mairengo (Svizzera). Ha studiato alla Kunstgewerbeschule di Lucerna, tipografia con Hans-Rudolf Lutz, disegno, pittura e illustrazione con Godi Hofmann e fotografia con Urs Marty. A Milano, collabora con lo Studio di Roberto Sambonet, che lo incoraggia alla pittura, tenendogli intense lezioni private. Successivamente, segue gli insegnamenti alla Bottega di AG Fronzoni. Lavora poi a Zurigo per Beda Achermann e ha la possibilità di conoscere il mondo della moda e quello della fotografia. Nel 1996 fonda con Lioba Wackernell, lo studio granit.