A Word That Troubles: sul rapporto irrisolto tra parola e immagine

Un’esposizione che fa riflettere sulla relazione tra parola e immagine attraverso varie modalità espressive.

Il rapporto fra parola e immagine, fra semantica e pura visualità, è al centro della collettiva A Word That Troubles, a cura di Gaia Bobò. La mostra, aperta al pubblico fino a giovedì 15 ottobre presso la Gallery of Art della Temple University di Roma, analizza i gradi di interazione tra i due fenomeni, scrittura e immagine, presentandone, grazie al lavoro degli artisti Alessia Armeni, Edoardo Aruta, Emanuele Becheri, Francesco Carone, Alessandra Draghi, Filipe Lippe, Agnieszka Mastalerz, Benyamin Zolfaghari, un’interessante varietà di possibilità espressive. Quest’ultimo aspetto, unito alla selezione di interpreti differenti per formazione, generazione e linguaggio, evidenzia tutta la profondità dell’oggetto di ricerca che la mostra intende esaminare. Difatti, ricordando con quanta ricorrenza la sperimentazione verbo-visuale abbia permeato – a fasi alterne – sia l’arte che la letteratura d’avanguardia (Paroliberismo, Poesia concreta, Poesia visiva, Gruppo ’63, Art &Lenguage, Lettering) del Novecento, l’esposizione si focalizza proprio sulla facoltà della parola di problematizzare l’immagine, porne in crisi gli statuti, rivelarne l’ambiguità. Ne consegue, come percepibile nel percorso di mostra, una pronunciata eterogeneità stilistica, dovuta alla diversità della prospettiva d’investigazione da cui ogni autore ha affrontato e risolto questo binomio, mirando a obiettivi diversificati e ricorrendo a materiali e a soluzioni tecniche plurali.

Dalla pittura al video, dalla fotografia al libro d’artista, il filo conduttore tematico del progetto, rispettando sempre le specificità di ogni singolo lavoro proposto, riesce a concertare, coerentemente, questa polifonia. Laddove impostano una relazione di mutualità, parola e immagine si confondono fino a sovrapporsi inestricabilmente mentre, in altri casi, mantengono la propria autonomia ma calibrate nel perimetro di una medesima operazione. Complessivamente, emerge una considerazione della parola scritta corruttibile e aperta all’influenza di nuove direzioni di senso, arrivando a contaminarsi con l’arte visiva in un confronto paritetico e dai risultati variabili. Essa è coesistente rispetto all’immagine, si muove al suo interno come una sua traccia, una sua riserva, un suo supplemento. Alle volte, sempre silenziosamente, si innesta nell’opera in maniera esplicita, altre è celata al suo interno e, in altre ancora, assume le connotazioni di un sottofondo concettuale, di un riferimento. La mostra sembra trasmettere che nient’altro, forse, si può attraversare intellettualmente con così tanta rinnovabilità, proprio quanto la parola; la sola in grado di condizionare la natura dell’opera nella maniera indiretta e implicita che solo l’esercizio della scrittura può insegnare a fare. Inoltre – come scrive la curatrice – sussiste “la presenza, tutt’oggi rilevante, di uno schema di pensiero verbale nel contesto delle pratiche artistiche italiane e internazionali, dove la verbalità non si esprime con un manieristico ricorso alla forma scritta ma mediante la capacità di esaltare il sapore del visuale, trovando cioè la sua sostanza nella stessa produzione artistica. La parola, pur mantenendo la sua capacità denotativa, non è dunque protagonista di un autoritario direzionamento del visibile, ma si flette per divenire immagine essa stessa”. Assecondando tali accenti, il percorso restituisce il differimento che è alla base dell’espressione scritta, alimentato, in mostra, dalla molteplicità di declinazioni estetiche provocate dalla parola contestualizzata nel campo d’indagine delle arti visive; un connubio che sembra ancora avere molto da dire.

Foto di Giorgio Benni