ARCO Lisboa
Francesca De Marinis

Una rondine non fa primavera, due sì

La mostra Una rondine non fa primavera, due sì è stata inaugurata presso la Yag/garage il 5 febbraio 2021, aprendo la stagione espositiva 2021 della galleria pescarese.

Protagonista della mostra è l’artista pescarese Francesca De Marinis, che espone le sue sculture di ortaggi e frutti in plastica riciclata, trasformando gli spazi della galleria in inaspettati banchi espositivi di un supermercato che creano un apparente cortocircuito fra la sacralità dello spazio artistico che lo spettatore si aspetta di trovare varcando la soglia della galleria e lo spazio evocato del supermarket, del consumo, della quotidianità.

Avvicinandosi, lo spettatore si trova davanti a incredibili manifatture al limite fra il design e l’arte contemporanea: pomodori, carciofi, pannocchie di mais e popcorn, ananas e grappoli d’uva traslucidi e dai colori sgargianti tanto da sembrare a prima vista eseguiti in delicatissimo vetro soffiato, realizzati in realtà in plastica riciclata – bottiglie, contenitori delle sorprese degli ovetti di cioccolato – con una incredibile maestria nella lavorazione e una cura nei minimi dettagli che li rendono oggetti di design pregevolissimi ma, a una lettura più profonda, si rivela il messaggio di denuncia che fa entrare il lavoro della De Marinis a pieno titolo nel mondo dell’arte contemporanea: denuncia ambientalista, in un momento storico in cui la tematica del riciclo è quanto mai calda e attuale, che l’artista interpreta dando nuova vita agli scarti della plastica sottraendoli ad uno smaltimento lento e non sempre sostenibile e denuncia al consumo sfrenato, al sistema dell’acquisto e dell’accumulo che permea le nostre esistenze e ci soffoca – come la sovraproduzione di plastica soffoca il nostro ecosistema. Accumulo riprodotto nel bancone carico di frutta e ortaggi che, esattamente come il ricchissimo bancone di un supermercato, ci invita ad avvicinarci, a toccare, a comprare e riproposto nelle teche contenenti singole sculture e nelle stampe sulle pareti, raffiguranti, perfetti e invitanti come protagonisti di copertine patinate, un carciofo, un pomodoro, un ananas o una pannocchia di mais.

Da qui il secondo cortocircuito per lo spettatore: stampe accattivanti, ricercate, che parlano il linguaggio della postproduzione fotografica raffiguranti oggetti associati al comune e banale consumo che sono però in questo caso oggetti d’arte resi pertanto non comuni e non banali e trasfigurati a soggetti elevati proprio dal linguaggio artistico. Un’operazione di risemantizzazione degli oggetti di consumo attraverso la legittimazione artistica attuata per la prima volta nei primissimi anni sessanta del secolo scorso dal padre della Pop Art Andy Warhol che, con i suoi barattoli di zuppa Campbell, non solo apriva le porte dell’elitario regno dell’arte al comune, al quotidiano, al popolare ma riconosceva e svelava una volta per tutte l’oggetto artistico come oggetto di mercato, esattamente alla stregua di un barattolo di zuppa ammucchiato su ogni scaffale di ogni supermarket di ogni cittadina degli U. S. A. o come i volti stampati su centinaia di riviste patinate, cambiando senza soluzione di continuità le sorti non solo della storia dell’arte ma anche del suo rapporto con il mercato, con il collezionismo e con il linguaggio di massa.

La rivoluzione di Warhol si riverbera in Europa, non più faro guida del destino dell’arte e i suoi riflessi si hanno, in Italia, nella prorompenza altrettanto rivoluzionaria degli artisti della Scuola di Piazza del Popolo che, nella Roma del boom economico, sperimentano e ricercano linguaggi artistici inediti, in rottura con la tradizione, ricorrendo a inaspettate tangenze non con linguaggi aulici ma popolari come quello cinematografico e dello spettacolo e quello pubblicitario e fotografico, come avveniva contemporaneamente oltreoceano – nonostante in seguito la Pop Art italiana verrà a caratterizzarsi in forme di più intima ricerca, in opposizione alla schietta arte di facciata americana, recuperando il bisogno di significato e la concezione devozionale insita nella storia dell’arte italiana.

Ed è proprio con i grandi maestri della Scuola di Piazza del Popolo – Mario Schifano, Tano Festa, Giosetta Fioroni – che il lavoro di Francesca De Marinis è accostato in questo dialogo fra linguaggi apparentemente diversi e inconciliabili ma in realtà profondamente legati da un bisogno di andare oltre il linguaggio artistico, oltre il meramente figurativo e ricorrere a un linguaggio che parli di quotidianità per affrontare e denunciare problematiche della quotidianità. Non solo: le forme coloratissime, lucenti, accattivanti di Francesca De Marinis sono accompagnate dalle tinte decise e dalla concezione goliardica del fare arte dei maestri romani. Concezione esemplificata nell’opera di Tano Festa che dà il nome alla mostra, Una rondine non fa primavera, due sì, un disegno a pennarelli su carta dove, oltre alla frase, insieme alla firma dell’artista e alla data (27 marzo 1975) è riportata una dedica a M. S., probabilmente l’amico e collega Mario Schifano a cui Festa si rivolgeva per legittimare la “primavera” artistica e intellettuale romana degli anni Sessanta.

Ma se una rondine non fa primavera in un determinato contesto storico e artistico, un’altra rondine che dopo decenni torna a volare sulle medesime istanze alla base di quel contesto, legittimandone il significato e prolungandone il messaggio, fa decisamente primavera.

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