Selvatico/Atlante

Selvatico/Atlante è una mostra che si articola congiungendo più spazi espositivi, collegando sedi museali, case sonnambule, palazzi disabitati e negozi sfitti grazie al lavoro, alle opere e ai differenti linguaggi di un cuore numeroso di artisti chiamato a rispondere contemporaneamente sia alle risonanze ed echi del luogo, che alle domande, stimoli e inneschi del progetto espositivo. 

Atlante dei margini, delle superfici e dei frammenti è un titolo che sta a indicare una possibile pista o direzione dello sguardo; una chiave di lettura che si rivolge agli artisti invitati quanto allo spettatore, cercando di far emergere, grazie a un sistema di risonanze e corrispondenze, un andamento nell’aria o un sentire comune che ci è parso riscontare in modi di fare e vedere, e idee del mondo, all’apparenza molto distanti tra loro. Un tentativo di orientamento.

Selvatico non è solo una mostra collettiva: differente e anomalo il suo costruirsi, qualcosa che assomiglia al formarsi di una comunità, per quanto provvisoria, precaria ed effimera, con l’esposizione e la sua mappa che crescono e prendono forma precisandosi e definendosi insieme agli artisti in una sorta di esplorazione e incontro sul campo. 

Così, nel cercare di descrivere il procedimento che porta alla crescita del progetto e della mostra, ricorriamo ancora una volta alla metafora dell’andamento vegetale, una ramificazione del pensiero che prende corpo e spazio, e sboccia nella sua forma migliore, l’unica infine fra le molte possibili.

La mostra come un organismo quindi, con un respiro, funzionante per relazioni e intrecci, dialoghi, trame e rimandi, gemmazioni, connessioni e corrispondenze. Un sistema di innesti e congiunzioni, un equilibrio fatto di affinità e contrasti tra le opere e gli autori, gli spazi e le persone. 

Una mostra che in questo suo nuovo episodio inquadra e mette quasi al centro, già a partire dal titolo che la guida, una contraddizione interna, aperta e pulsante, che ci sembra attraversare molte delle pratiche, indagini e ricerche, delle reazioni e movimenti delle arti visive: da una parte l’immagine dell’atlante, l’archivio e catalogo che si fanno mondo, il corpo geografia e la mappa, gigante che regge la sfera celeste, prima vertebra su cui poggia la testa, e quindi una certa tensione enciclopedica, o dell’opera che prova a contenere o essere parte per il tutto, storia del mondo per oggetti; dall’altra l’attrazione invincibile e la voragine risucchiante nei confronti del particolare, il gorgo e vortice del dettaglio, la superficie e la pelle, margini e frammenti, derive e sperdimenti, qualcosa che assomiglia da parte dell’artista al bisogno di spostarsi di lato, uno smarrirsi, un rimanere un passo indietro, o lungo i bordi e confini.

Atlante è la volontà testarda, l’ossessione all’universale, il compito schiacciante, con fatiche e lentezze, stupori, scoperte e meraviglie di collezionismo, raccolte e compendi; l’aspirazione, ambizione o desiderio di poter costruire uno sguardo nuovo e un pensiero archivio capace di comprendere, abbracciare e contenere sciami, complessità e moltitudini, pianeti perfetti, riconducendo infine queste pluralità e instabilità, a una forma unica e irripetibile, a un sistema ed equilibrio di segni e sensi.

E, a fare da controcanto a tutto questo, la difficoltà e impossibilità, sperimentata quotidianamente, di abbracciare questo imprendibile tutto, fondo del mare, cascate, oceano di immagini e informazioni, tempi e memorie, maree, vegetazioni, ossa, detriti e ceramiche e altre cose sepolte che ci sommergono o abbandoniamo per sopravvivere; e l’immobilità paralizzante talvolta, nel cominciare qualcosa, nel voler cercare di decifrare un mondo che invece sfugge, si parcellizza in polveri volatili, fatto com’è sempre più di frammenti e particolari galleggianti sospesi nell’aria, attimi spezzati e rotti, e scarsità di tempo che non ci permette di approfondire o uscire dalla caverna.

Dalle superfici riparte questa mostra, da questo ossimoro di una visione piatta e stratificata al contempo, da questa intelligenza tattile e visiva che si imparenta alla geologia e archeologia.

Così, alla luce di tutto questo, è forse lecito pensare a qualcosa che assomigli a un atlante ossimorico dei bordi, dei confini e dei margini, e a uno sguardo che diventa presa di posizione politica, resistente e selvatico, enciclopedia e atlante dei pezzi sparsi, geografia intima e sentimentale del frammento più o meno inutile, magico imprendibile misterioso. 

Un tempo fiume e sua immobilità ciclica che ritorna, identica e immutabile nella pratica quotidiana e artigianale dell’artista, e la materia che diventa dato irrinunciabile, luogo dell’accadimento, scenario potenzialmente sempre imprevisto proprio grazie a questa disciplina della ripetizione. 

E questo, in fondo, è uno dei compiti dell’arte, da sempre, mettere ordine al mondo e resistere alle forze, fare da argine allo sradicamento e perdita, alla dissoluzione e smarrimento dell’io e della presenza, occuparsi delle ferite e rovine, delle rotture, dei guasti, resti e detriti, e dei corpi che stanno ai margini. 

Selvatico è una risposta visiva, aperta e doppia, sfaccettata e molteplice, che si affida agli sguardi di una moltitudine di artisti di varia provenienza geografica e anagrafica, con percorsi, vite e storie differenti, scelti e invitati a far parte del percorso espositivo perché in risonanza, vicinanza e sintonia con le domande rilanciate dalla mostra. E suggestioni che, in un vero e proprio cortocircuito, sono esse stesse emerse dalle ricerche ed esplorazioni di questi autori, piena e fertile circolarità che rende complicato e non sempre possibile definire chi e cosa sia venuto prima, se l’interesse verso alcune opere, o se invece siano il tema o l’umore individuato ad aver orientato sguardi e attenzioni, aprendo strade nell’indistinto, accendendo fuochi, inneschi e scintille all’orizzonte, e possibili sentieri nella foresta.

E gli artisti chiamati qui a raccolta, in forme e modi differenti, possono essere ricondotti a un ambito di convergenza comune, un disegno di risonanze, riverberi e affinità che mette al centro del lavoro, delle idee e della sperimentazione, una dimensione artigianale e, di conseguenza, un certo grado di imperfezione, imprecisione ed errore; artigianalità intesa qui come processo vitale insostituibile, desiderante sensuale drammatico, di scoperta e approccio al mondo, una crescita che passa attraverso una curiosità mai sommersa e perduta nei confronti dei materiali e della materia, e dei suoi meccanismi, casualità e spostamenti imprevisti.

Il cuore della mostra è fatto da un dialogo tra due esposizioni e mostre differenti e complementari, che si snodano e prendono forma a partire dai musei di due paesi distanti tra loro pochi chilometri: Cotignola e Fusignano, nella bassa Romagna, una specie di terra di mezzo che non è già più riviera e non ancora appennino, dove la campagna è una specie di industria.

E una terza mostra, leggermente differita nella sua apertura, che si muove in uno spazio nuovo per Selvatico, un ecomuseo, quello delle Erbe Palustri di Villanova di Bagnacavallo, sempre in provincia di Ravenna.

A Cotignola la mostra si irradia a partire dal Museo civico ramificandosi dentro a una serie di spazi recuperati per l’occasione, tra edifici storici, case vuote e negozi sfitti che si affacciano principalmente su corso Sforza, la via del museo, che ha sede nell’antica casa degli Attendoli, a pochi passi dal fiume Senio, teatro e argine quest’ultimo di una lunga battaglia che mise sotto assedio il paese durante la Seconda Guerra mondiale.

Qui trentuno artisti e cinque spazi espositivi per una mostra che ruota intorno al museo dedicato a Luigi Varoli (1889-1958) che fu molte cose insieme, pittore, scultore, musicista, conservatore, uomo giusto, maestro ed educatore, e che seppe creare dentro alla sua casa e studio, e alla scuola Arti e Mestieri, ostinatamente, in maniera visionaria e resistente, stupida e contraria, una sorta di cenacolo che ha permesso a molti artisti di emergere o trovare qui un approdo o sponda momentanea. E Selvatico, da questa energia al tempo stesso centripeta e centrifuga, riparte, connettendosi a questo spirito, portando l’arte contemporanea, non solo genericamente in provincia, ma davvero ai margini e confini, nella periferia e campagna piena, nutrendola con nuovi incontri e relazioni e, viceversa, nutrendo gli artisti con pratiche non somiglianti ad altro. 

E dell’arte, di questo suo essere diffusa e distribuita secondo dinamiche e fioriture imprevedibili, e l’essere disposta poi a calarsi in contesti che funzionano diversamente, misurandosi con ostacoli e difficoltà, trasformando i luoghi, è anche, in modalità molte e differenti, una peculiarità italiana, una capillarità che continua a essere sorprendente, vitale e necessaria: un museo diffuso, un museo che è inseparabile dal paesaggio, il susseguirsi di scuole e centri, scambi e pensieri, tutto questo costituisce la nostra geografia più intima, vera e profonda. 

A Fusignano tutto avviene vorticosamente dentro al Museo civico San Rocco, un ex ospedale, un edificio ottocentesco che conserva nell’atrio e colonnato di ingresso al primo piano, due belle statue in gesso di Visani ad accoglierci e accompagnarci in un rinnovato spazio espositivo e museale tra cui spicca la figura anomala del pittore Annibale Bergamini.

Undici sono gli artisti dentro al Museo San Rocco; all’ingresso, al primo piano, a mettere ordine e dispiegare in un solo colpo d’occhio quel che troveremo in mostra e nelle sale, c’è una parete su cui è allestita una quadreria composta da un disegno a testa per ciascun autore presente: schizzi, progetti, appunti sparsi, disegni finiti o incompleti, la carta come membrana sensibile e il disegno come una delle spine dorsali di questa mostra, non a caso una delle cose che qui si incontrano subito, prima che il percorso si ramifichi proponendo e aprendo varie direzioni, piste che si riprendono poi e intrecciano come fiumi carsici nel dispiegarsi circolare del percorso espositivo.

Infine l’Ecomuseo delle Erbe Palustri di Villanova di Bagnacavallo, museo che che raccoglie sguardi antropologici, saperi e oggetti della memoria quasi perduti salvati, davvero un atlante e un archivio magico delle storie, ragnatela delicata e preziosa, intreccio di vite, genti e civiltà. In questo museo e giardino otto artisti: un solo lavoro a testa per un dialogo diretto e incisivo con la densità e pienezza delle raccolte e delle sale. Una narrazione, quella del museo, che ovviamente supera gli oggetti conservati a partire dal rapporto osmotico e complicato tra l’uomo e la natura, visioni del mondo che si condensano come sempre nei manufatti e nelle cose; terra e acqua, argini, stagioni, ciclicità, forze ed elementi. E poi il fantastico, tra favole, sortilegi, simboli, feticci e bestiari. Innesti e metamorfosi, trame e intrecci: il riutilizzo e la seconda vita delle cose, l’invenzione perfezionata nel tempo, e una specie di economia povera e funzionalità degli oggetti che si trasforma molto spesso in grazia e bellezza.

Selvatico disegna così un percorso espositivo che, attraversando ed espandendosi tra le varie sedi e sezioni connesse tra loro, assume la forma complessa e frastagliata di un arcipelago, o di una ricca e articolata costellazione punteggiata da piccole personali, con risonanze molte e un esteso dialogo e confronto capace di abbracciare e coinvolgere cinquanta artiste e artisti tra disegno, scultura, ceramica, collage, ricamo, fotografia, incisione e pittura.

La mappa che la mostra traccia e proietta, è un susseguirsi un po’ labirintico, a tratti domestico, di luoghi, musei, edifici, piani, camere e interni, abitati temporaneamente da opere e installazioni che si affiancano e sovrappongono alle storie e memorie presenti, rilanciandole, con un andamento che procede quasi per scatole cinesi, alternando temperature, pensieri, linguaggi, tecniche, temi e materie differenti a dettare il ritmo e l’avvicendarsi degli umori, prospettive e cromie, a creare sistemi di senso che governano delle quasi sezioni e sottoinsiemi in cui si raccoglie, distende, sovrappone, interseca e presenta infine il percorso espositivo: dall’insieme al dettaglio o dalla singola opera alla stanza e mostra tutta. E mostra che può essere letta così, attraverso un doppio movimento o modalità, ossia a partire da un disegno, dipinto o scultura, per connettere via via gli incontri e le cose viste in un processo di orientamento, svelamento e gioco a incastri a cui si aggiunge ogni volta un tassello a chiarire, decifrare, svelare e completare il disegno complessivo, oppure partendo dalla forma e struttura che governa il percorso espositivo, e da questa, incontrare le presenze, scendendo ed entrando nel particolare, attraverso un movimento contrario a quello precedente e che parte ora da una specie di visione a volo d’uccello, che si abbassa poi fino a entrare nel paesaggio o panorama, fin quasi a perdersi nel frammento e nel particolare. Una questione di punti punti di vista.

Chiamando sempre e comunque chi guarda, a congiungere e connettere, trovando ordine tra le cose e i pensieri, e suggerendo poi nuovi rapporti e traiettorie personali, altri sistemi di senso e collegamenti. 

Foreste. Fantasie e fantasmi. Volti e sguardi. Giardini. Mappe e labirinti. Luce e ombra. Archivi e raccolte. Sottrazioni e accumuli. Naturalia e mirabilia. Mondi magici. Immaginazioni e memorie. Il bianco e il nero. Il colore. La pelle della scultura. Il disegno e la pittura. Corpi, paesaggi e geografie.

Cotignola / Museo civico Luigi Varoli
27 ottobre 2019 – 19 gennaio 2020

> Palazzo Sforza corso Sforza 21 • piano terra / Thomas Scalco – Mattia Noal | Elena Hamerski – Ilaria Cuccagna – Elisa Bertaglia | Fabio Romano • primo piano / pinacoteca Matteo Lucca / sala archeologica Francesco Geronazzo • secondo piano / Silvia Vendramel – CaCO3 – Giorgia Severi 

> Casa-studio Luigi Varoli
corso Sforza 24 • Chiara Lecca – Giulia Manfredi – Alice Padovani
via Cairoli 7 • Luca Piovaccari | Giovanna Sarti | Valentina D’Accardi

> Civico 27 corso Sforza 27 • Chris Rocchegiani

Ex ospedale Testi via Roma 8
• piano terra / Federico Guerri | Giovanna Caimmi | James Kalinda | Manuela Vallicelli | Ettore Frani | Chiara Enzo • primo piano / Alice Faloretti | Giacomo Modolo | Milena Sgambato | Sarah Ledda | Maurizio Bongiovanni | Barbara Fragogna | Elisa Muliere

Museo civico Luigi Varoli Corso Sforza 21 Cotignola (RA)
ingresso gratuito
Orari di apertura: giovedì e venerdì  15.30-18.30
sabato, domenica e festivi 10-12 e 15-19
Aperto 8, 26 e 31 dicembre e 6 gennaio, chiuso il 25 dicembre e 1° gennaio
Aperture su richiesta da lunedì a venerdì 9 -13
È possibile prenotare visite guidate e laboratori per scuole e gruppi
a partire da un minimo di 7 partecipanti a un massimo di 30
al costo di 2 euro a persona per la visita e di 4 per visita e laboratorio
Aperture anche su prenotazione
0545.908879 / 320.4364316 | fabbrim@comune.cotignola.ra.it
facebook: luigi.varoli.cotignola