Una – semmai un giorno dovesse cambiare il mondo – potrebbe essere tacciata e incriminata di stregoneria, perché conosce le proprietà delle erbe e desidera comprare una baita sperduta in montagna; l’altra vive nei frammenti di una città “senza terra”, in quello splendido specchio d’acqua che è Venezia.
Il punto di raccordo tra di loro sono io, ma questa è un’altra storia. Forse un giorno farò in modo che si conoscano, chissà cosa mai potrà nascere dall’incanto di un incontro tra donne, fotografia, pittura e ceramica.
C’è in verità un’altra convergenza, la Calabria che è la terra di origine di tutte e due.
Arianna Samà vive lì da tempo, ha lasciato Roma da anni ormai. La sua terra di mezzo è la Calabria, senza rimedio.
Serafina Figliuzzi invece si è stabilita a Venezia ma, inutile dirlo, la sua casa non è da nessuna parte, e questo è davvero un frequente tratto comune a chi è nato e partito dalla Calabria, una terra, direi, senza radici. Che consente di liberare i suoi figli, o di incatenarli, avvinghiarli a sé, insomma proprio come una madre che trattiene o sa donare la propria prole al mondo.
Perché racconto di loro?
Le ragioni sono tante, ma una più di tutte è fondamentale.
Sono tutte e due donne e artiste outsiders. Alfredo Accatino, autore di un saggio appena uscito (con la Giunti Editore), ne potrebbe parlare per una nuova ristampa.
Se il libro Outsid3rs, appunto, delineando i vissuti e le parabole artistiche di molte donne e uomini dell’età contemporanea, dal 900 ai nostri giorni, sceglie quasi sempre nomi pressoché sconosciuti, nel mio contributo è a queste due perfette “sconosciute” che decido di dare luce e risonanza.
Outsiders perché assolutamente fuori dagli schemi, per scelte di vita e di tecniche artistiche, per il loro coraggio e la caparbietà con cui ogni giorno si mettono davanti al loro lavoro: sia esso mediante le mani che impastano argilla e sudore, oppure tramite gli sguardi di uno scatto che cercano, incrociano e compongono un mondo nuovo che era lì, per noi ignari, già sotto i nostri occhi.
Che poi abbiano compiuto studi notevoli, che abbiano frequentato o meno accademie o gallerie rinomate non ha importanza, anzi. Forse sta proprio lì l’eccezionalità. Che al contrario di molte colleghe non abbiano invece battuto quelle strade. Ma altre, molto più impervie.
Per la Samà, ceramica e pittura fanno i conti con molto altro, non solo con lo studio degli intrugli che nascono dalle erbe ma anche con la filosofia orientale, la passione per l’astronomia, la ricerca sul concetto del tempo.
Ne è prova la sua serie di orologi in ceramica. Straordinari pezzi unici che lei tiene appesi su una parete del suo soggiorno, come fosse l’allestimento di una galleria d’arte.
Ma è tutta la sua casa un’opera d’arte, partorita dalle sue mani sapienti e smagrite. Il camino che profuma di arancio, gli intralci di fili e pezze, i quadri informali sopra la testa…è un mondo alla rovescia che vive accanto al suo laboratorio, quello sì, un ambiente messo ogni giorno tutto a soqquadro.
Figliuzzi inscatola spazio dentro una casa veneziana silenziosa, ridente e irrimediabilmente piccola.
Lì, alzando il piano con un soppalco, ha creato il suo tempo, anche se scandito spesso dagli impegni di famiglia.
Le donne si inventano sempre un mondo a parte, che lo abbiano o no.
Che possano o no. Lo creano dal nulla.
E lo mettono al mondo, come nel caso della Figliuzzi, dentro i limiti ben circoscritti di una stampa fotografica. Lei, in questo caso, predilige uno studio in particolare (Tecnhiphoto di Francesco Vitturi di Venezia) perché la qualità della carta è tra le migliori.
Ciò che più contraddistingue il modo di operare di entrambe è la varietà e l’arditezza della visione.
Raccolgono pezzi di vita da ogni luogo, dentro o fuori di loro. Perché ogni cosa è vita.
Una foglia che si muove o un albero che brucia, per Serafina Figliuzzi ha lo stesso significato, possiede lo stesso soffio vitale di una nascita, di una donna che partorisce nuovamente se stessa come in molte sue foto.
Il corpo è il cuore del suo lavoro.
Così come i grafemi sconosciuti, presenti nelle opere pittoriche di Arianna Samà, hanno richiami al mondo occulto che si intrecciano nelle sue conversazioni e dentro i suoi taccuini segreti.
L’anima è il cuore del suo lavoro.
Corpo e anima, due dimensioni in una sola. Ecco perché il lavoro di entrambe le artiste si interseca, parla assieme in uno dialogo serrato e senza tempo. Il corpo diventa anima e viceversa.
Ecco perché racconto di entrambe. In un momento come il nostro in cui ogni aspetto della vita è messo di nuovo sottosopra, nello spazio tempo, dove la relazione con la propria fisicità e la necessità di raccoglimento e silenzio sono tornate fortemente in auge.
Perché la dimensione del dialogo interiore sta prepotentemente tornando presente e porta con sé il suo carico di disordine, un disordine però necessario come vuole Jodorowsky:
“L’ordine perfetto esiste solo accanto al disordine. L’ordine totale in un giardino uccide il giardino”.
E perché oggi più che mai, il giardino degli artisti e anche il nostro è in grande subbuglio.
Chissà se, come Arianna e Serafina, sapremo riscoprirne la bellezza per generare un’armonia inedita e assolutamente eccezionale in quanto scaturita dal caos più totale.
Questo tempo d’incertezza, “liquido”, avviene quando muoiono le vecchie credenze, le tradizioni senza senso, accade quando il paradigma della visione delle cose è irrimediabilmente cambiato, ed è ciò che frastorna.
In questo tempo, si affacciano due donne. Ognuna con la propria storia da riscrivere ogni giorno.
E allora “farci creature” non è soltanto il titolo di un progetto della Figliuzzi, ma anche il sapore dei nostri giorni, dove idee come assenza e ricreazione possono ripercuotersi in azioni necessarie e inevitabili. Soprattutto se il linguaggio che le traduce in immagini è la fotografia, mezzo prediletto che Figliuzzi adopera per ricucire uno strappo, per arginare il vuoto di un’assenza.
Un vuoto che però non si deve per forza immaginare in un tempo umano o in una dimensione cronologica. E allora è quanto mai pertinente, risuona ed è vicina la poetica della Samà col suo modo di “abitare” il tempo, senza farselo scorrere, incurante, tra le mani. (Anna de Fazio Siciliano)