Nicola Samorì

L’indistinto in Black Square di Nicola Samorì

Il 18 gennaio 2020 ha inaugurato a Napoli, e avrebbe dovuto rimanere visibile fino al 30 aprile, nel chiostro della Fondazione Made in Cloister e presso il Museo Archeologico Nazionale, la mostra di Nicola Samorì BLACK SQUARE a cura di Demetrio Paparoni. La chiusura anticipata di ben 3 mesi causa emergenza Covid -19 mi ha spinto a stendere queste mie considerazioni sulla mostra che ho avuto la fortuna di vedere.

C’è una sensazione che spaventa in questa messa in scena napoletana di Nicola Samorì perché questa volta l’autore ha allestito e presentato il suo personale processo artistico, la sua azione incessante e tormentosa sulla materia, tanto da affermare che  “tutti i lavori in mostra parlano della trasformazione della materia, rivelano il potenziale della decadenza e l’energia primigenia della creazione, della degenerazione e della rigenerazione”.

Nella mostra i riferimenti culturali da cui l’autore parte per la sua rigenerazione sono plurimi e vanno dalla rielaborazione di un piccolo avorio intagliato dallo scultore tedesco Joachim Henne nel 1670/80, la Morte come batterista, una figura scheletrica dal corpo simile a una clessidra, deformato in Drummer, un acefalo nero alto 5 metri, agli amati Josè de Ribera  (San Paolo Eremita) e Luca Giordano (San Bartolomeo Scorticato), ridipinti su rame e lacerati con la tecnica del bulino. Demetrio Paparoni, curatore della mostra, a proposito di questo metodo di lavoro di Samorì, sempre derivato e divoratore di un modello, dichiara però  che “Il suo lavoro non illustra un significato ma, come direbbe Arthur Danto, lo incarna. Samorì riporta al presente un momento di Storia svincolato da ogni forma di nostalgia verso linguaggi consolidati. Nessun intento archeologico dunque. Lo stato emotivo che l’opera esprime è […] nel significato che l’imponderabile trasformazione di forma e materia assume per l’individuo.”

Concentriamo l’analisi quindi alla trasformazione insita in ogni opera e affrontiamo la dialettica origine e soluzione, ovvero quel processo qui presentato che non lascia mai lo spettatore fermo a guardare una classica mostra ma che lo rende partecipe di un moto che lo porterà a divenire esso stesso parte del processo di rappresentazione.

A Napoli, in particolar modo al Made in cloister,  la sensazione è quella di essere precipitati nel processo dove l’autore genera la sua arte: l’obelisco di morte, la statua Drummer, è presente al centro del chiostro, troneggia su tutto e tutto intorno si agita e prende vita, le opere come gli spettatori della mostra. Qui nessuna opera è ferma in se stessa, ognuna è in dialogo con le altre e allo stesso tempo è in dialogo con la propria materia di cui è costituita così da lasciar intravedere l’intuizione generatrice e il lavorio incessante di Nicola Samorì.

Entrare nella mostra comporta attraversare le Onici dipinte e vederne la tavoletta di materia nuda a lato, intuire cioè come dalla forza intrinseca della pietra si sia poi posata la pittura, andando a creare la fusione natura-cultura, materia-figura, dove l’umano si adegua al minerale. Qui l’occhio non si riesce a fermare sull’opera ma continua a dialogare con la sua genesi, l’onice nuda posta a lato, e l’indistinto entra in azione e schiaccia dilatando il tempo in un eterno presente dove sta l’uomo come la pietra. In San Gennaro la fusione diventa totale, la decapitazione del santo sul collo e il lato in ombra del volto sono indistinguibili, la pietra o pittura che sia rompe la rappresentazione (anche nel suo formato classico di quadro rettangolare) e si presenta come essere, un divenire concluso che non è più umano e nemmeno minerale, un umano del tutto cosificato, la mortale vita in essenza. 

Lo stesso processo, ancor più potente, arriva dalla statuaria disposta nelle sale del Museo Archeologico Nazionale dove i busti nascono partendo dalle imperfezioni della pietra. Calciti, cristalli o dolomiti, rimangono come buchi e trasfigurazioni delle teste, come se l’umano si sbriciolasse nella sua breve vita in un confronto impietoso con l’infinito tempo metamorfico minerale. Nella scultura l’eterno presente diventa solidissimo e precipita la distinzione qualitativa del processo umano e minerale, si avvera l’indistinto nella rappresentazione.

Tornando al chiostro sede della Fondazione Made in Cloister arriviamo all’affresco dove l’opera di Nicola Samorì ci mette in moto anche fisicamente e, come i pedanti, ci fa avanzare e retrocedere guardando. Il moto è nell’affresco, nei suoi strappi, nell’addentrarsi nella sua costruzione a sfoglie. C’è la rappresentazione e il materiale, sono pannelli enormi, e obbligano continuamente a veder nascere e a veder morire, camminando da destra verso sinistra o da sinistra verso destra. Dal nulla appare e nel nulla torna ma qui ci sono anche tutte le fasi, c’è dialogo e evoluzione del suo farsi, ognuna è presente e significante in se, cosificata, ma è nell’insieme che il moto materico, l’indistinto vita/morte, si palesa nella sua potenza ciclica, nel tempo, nella storia.

Nicola Samorì, La pietraia

Infine la Pietraia, il quadrato al centro del chiostro, dove avviene per la terza volta l’indistinto, dove le 1.200 teste sasso di 1 cm si fondono fino a scomparire nel cromatismo dei lapilli. La percezione dell’opera diventa impossibile essendo un essere-non-essere di pura materia indistinguibile. L’opera d’arte qui arriva alla sua dissoluzione: calpestata si pone al pari della breccia da cortile mostrando come il dialogo sia tutto con la materia e con l’azione necessaria che si porta dentro, azione che in questo caso passa allo spettatore che deve letteralmente cercare l’opera chinandosi nella Pietraia.

Ai piedi della morte, in una mostra tutta incentrata sul processo, si palesa il moto, che è sempre presenza, in quanto incessante attività, produzione consapevole e azione: far nuovamente finito l’infinito e condensarlo nell’indistinto natura-cultura, nel ciclo vita-morte, nell’essere-non-essere, poiché tutto è materia e sta all’arte renderla memorabile.