Franco Spina, Il circo della mosca, perfermance, Firenze maggio 2020. Foto e credits Franco Spina.

La performance durante il lockdown

Tre artisti al festival CORPO tra i limiti dovuti all’emergenza sanitaria e le sfide di un’arte proposta sul web

Uno dei fenomeni che il periodo di lockdown ha maggiormente alimentato è stato quello di condizionare gli artisti nel produrre le proprie opere in casa. Pur riconoscendo le difficoltà che un pittore o uno scultore si è trovato ad affrontare nel dover lavorare nel suo domicilio (anche se in diversi dispongono di uno studio o di un atelier secondo quella fortunata formula casa-bottega), immaginiamo quanto possa essere stato difficile per un artista, che si occupa di performing art, nel dover produrre le sue azioni nella propria abitazione. 

La performance è tra i linguaggi dell’arte che più di ogni altro ha necessità della presenza del pubblico. Un periodo difficile, quindi, per i performer, soprattutto se coinvolti in una sfida importante come la partecipazione ad un festival. È accaduto ad Andrea MatarazzoGianmaria Victor De Lisio e a Franco Spina invitati alla X edizione di CORPO – Festival delle arti performative, tenutosi dal 29 al 31 maggio scorso. Il luogo in cui si è svolto il festival non è stata più la città di Pescara, la regione Abruzzo o le altre località che in dieci anni hanno ospitato questo progetto ma il web, diventato ormai, a causa dell’emergenza sanitaria, una delle poche alternativa dove poter partecipare ad iniziative culturali.

Ogni artista, oltre a dover provvedere al recupero del materiale per svolgere le proprie performance, si è trovato a dover ritagliare nei propri ambienti domestici la location adatta per lo svolgimento dell’azione. Le performance sono state successivamente caricate su un canale YouTube e veicolate sulla rete attraverso i social e attraverso appuntamenti live che hanno previsto l’incontro con gli artisti partecipanti alla rassegna. L’organizzazione è stata portata avanti dal Centro di Archiviazione e Promozione della Performing Art (CAPPA) di Pescara che da anni segue questo ambito disciplinare.

6.9 (23 novembre 1980) è la performance realizzata da Andrea Matarazzo in collaborazione con il collettivo Regno di Amataria di Avellino. La tragedia del 23 novembre del 1980, che ha fatto tremare l’Irpinia uccidendo quasi tremila persone, è ricordata attraverso l’uso di un foglio bianco, di un carboncino e del corpo dell’artista. Novanta secondi per “rivivere” la terribile tragedia. Andrea Matarazzo diventa così un medium che registra l’intensità della scossa, una sorta di sismografo umano che mette in contatto il foglio e la terra. Il lavoro dell’artista partenopeo raccoglie eredità importanti e antichi legami tra la regione Abruzzo e la Campania. Il terremoto è un triste evento che non avvisa e che colpisce indistintamente i territori: è accaduto diverse volte in Abruzzo così come in Campania e sono stati molti gli artisti che hanno raccontato fenomeni naturali come questo. Lo ha fatto Joseph Beuys che nel febbraio del 1981, a soli tre mesi dalla catastrofe che colpì l’Irpinia chiamando Lucio Amelio si rese subito disponibile a dare un contributo per aiutare una comunità devastata dal sisma. Fu allora che il noto gallerista capì che l’arte poteva ribilanciare e rispondere all’evento catastrofico. La grande energia che anima l’arte può, infatti, contrapporsi a quella scatenata dalla Terra. Da lì nacque la performance di Joseph Beuys Terremoto in palazzo. Lo stesso Beuys che farà dell’Abruzzo la sua seconda casa per via di quella natura così selvaggia e per certi versi estrema. Ma l’opera di Matarazzo si carica anche di quella cultura gestaltica che giunge direttamente dalle sperimentazioni di Hermann Nitsch che a Napoli, grazie al sostegno di Beppe Morra, realizza tra i suoi lavori migliori. E’ sarà proprio Beppe Morra, ospite in una prima edizione di CORPO, a dichiarare come Nitsch abbia sempre riconosciuto l’Abruzzo come terra vitale e “primitiva”. Andrea Matarazzo con la sua azione unisce e abbraccia esperienze culturali diverse, due territori che la storia ha sempre presentato uniti. Ma l’abraccio che l’artista compie con la sua perfomance è anche un’espressione d’amore per una terra difficile come quella in cui vive e lavora.    

To Seles – sales – (re)solved è il nome dell’azione di Gianmaria Victor De Lisio. La performance riflette sul rapporto tra criticità traumatica fisico/interiore e le conseguenze che scaturiscono da essa. L’azione utilizza alcuni particolari, tratti dalla biografia della tennista jugoslava Monica Seles. Ispirandosi all’aggressione che la Seles subì da parte di un tifoso che le provocò degli effetti psicologici devastanti, De Lisio propone un’azione costruita sui “fardelli” che l’individuo è costretto a trascinarsi nel proprio percorso di vita. Il lavoro di De Lisio presenta tutte le difficoltà di una performance prodotta in casa. Ma la forza di questa azione risiede proprio nel sapore “grezzo” e documentativo, quasi di matrice anni ’70 – ’80, che caratterizza il video che registra l’happening. Una ripresa “amatoriale” che conserva tutta la freschezza di chi in quel momento oltre a documentare sta partecipando ad un’azione piena di pathos, sofferenza e fatica. I respiri affannosi dell’artista, costretto a strascinare con delle catene un peso importante, permeano nella testa di chi osserva e ascolta. Sono ansimi angoscianti e asfissianti che schiacciano e immobilizzano l’osservatore impotente nel poter aiutare l’artista costretto a vedersela con se stesso. 

Infine, Il circo della mosca è il titolo del lavoro di Franco Spina. Questa performance così come afferma lo stesso artista «nasce dalla dichiarazione di un non-sense esistenziale, assoggettato a una oscillazione perenne nella dialettica vita – morte, sesso – violenza, io – l’altro, dentro – fuori». L’azione è una denuncia dell’oppressione delle regole sociali sull’individuo, che viene schiacciato e spersonalizzato dalle imposizioni esterne, ma anche un apologo sull’impossibilità di comunicazione tra esseri umani, simboleggiata dai luoghi chiusi ed asfittici. Ripartendo da una riflessione di kafkiana memoria Franco Spina allestisce nella sua abitazione, durante i giorni di quarantena, il set per la sua performance. Curando ogni minimo dettaglio con un lavoro di postproduzione di altissima qualità tanto da far pensare al video ad un lavoro indipendente dall’happening, Spina pone al centro della sua riflessione la vita di una mosca. In questa performance il repellente insetto rappresenta l’elemento livellatore di una società dove la fratellanza è riscoperta solo nel momento tragico dell’epidemia: momento che accomuna e livella tutti gli esseri. L’insetto che nell’incipit iniziale dell’azione è descritto come animale fastidioso, sporco ma allo stesso tempo potente, diventa sia simbolo negativo che positivo. Il lavoro di Spina attinge a piene mani nella cultura rinascimentale come ad esempio nella pittura fiamminga o degli artisti dell’Umanesimo. Pensiamo ad esempio al pittore veneto Carlo Crivelli che nella sua Madonna Lenti (1472-73), aggiunge alla visione idilliaca della Vergine con il Bambino un grosso moscone nero simbolo di morte e caducità della vita. Contemporaneamente la performance strizza l’occhio alla memorabile installazione dell’artista siciliano Elio Marchegiani che nel 1969, presso la galleria Apollinaire di Milano, realizzò l’intervento 9000 mosche sotto 350 bicchieri. Qui le mosche per tutto il periodo della mostra si nutrirono, crebbero, si riprodussero e defecarono secondo quella scansione ciclica che caratterizza la vita di questi insetti: uovo – larva – pupa – mosca, dimostrando come nonostante le condizioni di vita estrema le mosche riescano a nutrirsi, a crescere e a riprodursi. Per certi versi il banchetto allestito da Spina, le lunghe attese di commensali amici che non giungeranno mai per via del lockdown, e i momenti in cui l’artista si ritira in bagno per evacuare quanto divorato nel lungo pasto, non sono altro che i ritmi che la nostra società si è trovata a vivere in questo particolare momento di emergenza sanitaria. Ed è proprio la monotonia delle azioni reiterate nel tempo che conducono l’uomo/artista a vivere un vero e proprio processo di moschizzazione che si compirà definitivamente nel momento in cui potrà tornare in piena libertà.