Nelle primissime pagine delle sue Ore giapponesi, Fosco Maraini precisa con estrema chiarezza l’intervallo di distanza che separa la visione occidentale della bellezza dalla sua controparte nipponica. Nel primo caso, e quindi nel vecchio continente, i processi evolutivi in atto nell’architettura e nell’urbanistica hanno da sempre tentato di sviluppare un’estetica diffusa, coinvolgente, non necessariamente limitata alla produzione di “singolarità estetiche” bensì orientata – perlomeno in linea teorica – alla costruzione di ecosistemi di vivibilità e di godimento visivo generalizzato; in Giappone, invece, lo spazio cittadino serve perlopiù obiettivi pratici, e perciò estranei a logiche di abbellimento: “Le città giapponesi – scrive Maraini – sono semplici strumenti di vita e lavoro, enti provvisori che servono i loro fini solamente pratici”. A corollario di tale considerazione – o si potrebbe parlare addirittura di premessa? – un’idea di bellezza celata, una meraviglia che si astiene dallo spettacolo del mondo volgare e che si concede solo agli spiriti disposti a sottoporre il corpo e la mente alle fatiche di un viaggio enigmatico: “In Giappone (…) la bellezza è iniziatica, la si merita, è il premio d’una lunga e talvolta penosa ricerca, è finale intuizione, possesso geloso”; di conseguenza, il bello, “essendo per lo più recondito, è necessariamente aristocratico”. Il Giappone fu terra cara a Maraini: antropologo, orientalista, egli trascorse in Giappone gli anni del secondo conflitto mondiale, in qualità di lettore di italiano all’Università di Kyoto, prima di essere imprigionato nel campo di concentramento di Nagoya in quanto fermo avversario della Repubblica Sociale Italiana, all’epoca dei fatti alleata dell’Impero giapponese.
La sua prospettiva, quindi, è un valido ponte di mediazione tra culture lontane, uno strumento efficace per introdurre un’altra personalità intimamente legata al Giappone, ovvero l’artista americano James Lee Byars (1932-1997), a cui Pirelli HangarBicocca ha dedicato un’importante retrospettiva. La prima, dalla sua morte, avvenuta nel 1997 al Cairo, in Egitto; la seconda, in generale, anche se a più di trent’anni di distanza da The Palace of Good Luck, allestita nel 1989al Castello di Rivoli. La mostra, a cura di Vicente Todolì – già responsabile delle precedenti rassegne a Valencia (IVAM – Centre del Carme, 1994) e Porto (Museu Serralves, 1997) –ripercorre la carriera di Byars, proponendo una selezione di opere dal 1974 al 1997. Tagliando fuori dal percorso la primissima fase dell’artista, principalmente orientata alla performance, Todolì evita sapientemente tanto l’ordinamento cronologico quanto il format della “mostra-archivio” e la mole di materiale documentario che, in occasioni analoghe, spesso corre il rischio di appesantire l’esperienza di visita. Al contrario, la retrospettiva di Byars, in linea di continuità con la politica di Pirelli HangarBicocca, è pensata come un’unica grande installazione: “Concepiamo sempre retrospettive site-specific che dialogano con l’architettura di Pirelli HangarBicocca. – spiega il curatore – Nella sua pratica James Lee Byars era solito adattare il suo corpus di opere allo spazio in cui veniva esposto, creando così una mostra che fosse essa stessa un’installazione complessiva. Pertanto, la nostra selezione di opere interagisce con l’ambiente ex industriale delle Navate, sfidandoci a interpretare lo spazio secondo l’approccio concettuale dell’artista”.
Il percorso è studiato come un’opera unica, come un dramma in tre atti. Il primo atto si apre e si chiude con The Golden Tower (1990), una torre monumentale, in acciaio inossidabile rivestita in oro 24 carati, alta ben 21 metri. L’opera, che nelle intenzioni di Byars avrebbe dovuto superare i 300 metri, è da intendersi come “monumento all’umanità”. Nella recensione alla retrospettiva al Castello di Rivoli, Lucia Spadano (“Segno”, n. 84/85) ha scritto: “Il termine “monumento”, nel suo valore etimologico latino “monumentum”, da moneo, ricordo, serve a designare un oggetto che tramandi la memoria di persone e di avvenimenti del passato. Ed è proprio l’idea di affermare e tramandare, attraverso segni appariscenti e durevoli, un evento o la memoria di esso che sottende il lavoro dell’artista”. È dalle sue parole che si può partire per esplorare l’universo creativo di Byars, un luogo peculiare dove avviene l’incontro, proficuo, dei poli opposti, la fusione degli estremi dialettici nella singolarità dell’opera. Estremi che Byars individua in primis nell’eternità e nell’istante, nell’effimero e nel permanente, due tra i possibili capi lontani che richiamandosi a vicenda attivano la magia dell’interrogazione, della domanda insolvibile, il cui cuore custodisce il segreto dell’arte: “uno dei momenti filosofici più importanti – commentava l’artista – è quando si realizza che quasi tutto è un grande interrogativo”. D’altronde, l’obiettivo di Byars è stato sempre quello di dar vita alla prima filosofia totalmente interrogativa, in una pratica artistica costantemente rivolta all’interruzione comunicativa, al gioco alternato di epifanie e sparizioni in cui un’altra dicotomia fondante, quella tra presenza umana e oggettuale, ha subito, nel corso degli anni, dei continui ribaltamenti di fronte.
Ha scritto Klaus Ottmann: “Mentre i primi lavori performativi erano improntati prevalentemente sul modello del teatro No e tendevano alla smaterializzazione dell’arte tramite azioni e performance, in seguito la pratica di Byars si orienta verso una re-oggettificazione delle azioni conferendo ai materiali degli oggetti la capacità di sollevare domande filosofiche”. La grande torre, quindi, è un monumento eretto alla capacità, tutta umana, di aprire vie di pensiero, di alimentare il fuoco dell’incertezza; e se si considera la tradizione storica, e la forma-monumento come sentenza, come asserzione di valori e ideali condivisi da trasmettere alle generazioni future, allora The Golden Tower può a buon diritto inserirsi nella tradizione, più recente, degli “anti-monumenti”. Byars, come già precisato, non intende tuttavia demolire un sistema valoriale per ricostruire da zero: la sua posizione è piuttosto quella di un aristocratico errante, pienamente a suo agio nel Purgatorio ed alieno alle manie di controllo proprie del razionalismo occidentale. La sua torre dorata, infatti, non sosta troppo a lungo nei luoghi deputati alla sua esposizione (la prima apparizione dell’opera risale al 1990, al Martin-Gropius Bau di Berlino, la seconda al 2017, quando venne collocata in Campo San Vio a Venezia, per il ventennale della morte di Byars), ed è perciò suscettibile allo spostamento, alla deviazione, all’impermanenza che è quella degli umani sul pianeta. Tuttavia, è proprio una simile condizione che facilita il mantenimento di un certo impatto visivo, emotivo e mentale debilitato, altrimenti, dal carattere permanente dei monumenti classici e dei “contromonumenti” sorti nella seconda metà del Novecento: “A una prima fase di reazioni entusiastiche nei confronti della contromonumentalità contemporanea – scrive Andrea Pinotti nel recente Nonumento. Un paradosso della memoria (Johan&Levi, 2023) – è seguita una serie di riflessioni più prudenti, se non apertamente scettiche, che hanno rilevato come le strategie contromonumentali (…) alla lunga mostrino la corda, esauriscano quella carica provocatoria che le anima e condividano alla fine il medesimo destino dei monumenti commemorativi tradizionali dai quali intendevano così decisamente distinguersi”.
Al deperimento della memoria che accompagna una temporalità lineare e rassicurante, Byars contrappone la massima conservazione energetica, il dispendio retinico, emotivo e intellettuale garantiti dall’istante. Il rovesciamento di prospettive tradizionali, di sguardi rassicuranti, è poi ben evidente nella cupola terminale della torre, The Capital of the Golden Tower (1991), staccata dal corpo elevato e posizionata a terra. La specie umana, pare suggerirci Byars, reca nel suo codice genetico una possibilità duplice, l’ascesa e il tracollo. A seguire, un altro pilastro, in marmo rivestito in oro (The Door of Innocence, 1986-1989), ancora massima sintesi formale dell’uomo, si lega a The Figure of the Question is in the room (1986): di nuovo, l’essere umano trova casa nello spazio di definizione del mistero, dell’enigma, della domanda che non lo atterrisce, bensì lo valorizza. L’uomo si inscrive perfettamente nel perimetro della domanda, nella geometria elementare del cerchio perfetto. I concetti di perfezione e di domanda, centrali nella riflessione teorica e pratica di Byars, tornano, poi, nelle due tracce audio (What? e Pronounce Perfect until it appears, del 1979) concesse da Maurizio Nannucci – amico fraterno dell’artista – e dall’Archivio Zona.
La voce di Byars pone domande, recita litanie senza mai cedere alla funzione comunicativa, ma soprattutto è l’unica traccia a distanza della sua presenza, quel qualcosa che sconfessa l’impianto antinomico tra essere e nulla: in Contro la comunicazione, Mario Perniola scriveva: “La causa dell’essere e quella del nulla sono sostenute oggi in Italia con uguale coerenza e radicalità rispettivamente da Emanuele Severino e da Gianni Vattimo. Ma l’essere e il nulla non sono le due uniche risposte filosofiche all’esperienza del carattere provvisorio e fuggitivo del mondo: fin dall’antichità la filosofia ha pensato anche il qualcosa, che è appunto alcunché di irriducibile sia all’uno che all’altro termine. Recentemente è stato Umberto Eco a portare l’attenzione su questa nozione che sembra piú adatta delle prime due a unire il riconoscimento dei limiti della condizione umana unitamente all’apprezzamento dei suoi incanti.” Intimamente connessa ai due brani vocali è poi The Hole for Speech, una grande lastra di vetro agganciata a una struttura in legno. Progettata per una mostra personale a Berlino (Galleria René Block), recava in origine una titolazione diversa – The Big Glass or the Refinement of Perfection – motivata dal ruolo performativo ricoperto all’inizio: nella personale berlinese, infatti, Byars, che si posizionava dietro al vetro, vestito con il consueto abito nero che caratterizzava le sue uscite pubbliche, chiedeva al suo pubblico di definire, a parole, la sua personale visione della perfezione.
Anticipato dal monumento in due tempi che apre la mostra, lo statuto “mediano” concesso all’uomo, continuamente in bilico tra aspirazioni d’elevazione e ricadute mondane, è poi riconfermato dalle due installazioni oggettuali stese a terra, The Giant Angel with the human head e The Devil and His Gifts, entrambe del 1983. Realizzate per una retrospettiva al Van Abbemuseum di Eindhoven – in quell’occasione, il Diavolo apriva il percorso, l’Angelo ne sanciva la fine – le due opere si fondano su una metodologia analoga: su di un telo di seta (nero nel primo caso, rosa nel secondo) vengono posizionati continuamente nuovi oggetti, dalle sfere in pietra arenaria – a volte disposte a formare un fallo rudimentale – a lettere vergate a mano e cataloghi personali di Byars. La seta ricompare, adagiata su un tavolo in legno nelle immediate vicinanze, a proteggere una grande zanna di narvalo di circa tre metri: prima della scoperta del cetaceo, infatti, le sue zanne venivano scambiate per corni di unicorno (da qui il titolo dell’opera, dell’84, The Unicorn Horn). In questo caso, il ricorso alla mitologia pare ancora una volta servire il bisogno di evasione dalle certezze razionali, e l’assenza dell’animale – o meglio, la presenza del suo qualcosa – offre una via di fuga all’immaginazione, che traendo vantaggio dalla mancanza di riferimenti precisi e calcolabili, può liberare tutta la sua energia poietica. The Rose Table of Perfect, del 1989, e la sepoltura personale dell’artista (The Tomb of James Lee Byars, 1986), sono invece due sfere, del diametro di un metro, che s’affrontano a distanza, e che saturano l’atmosfera creando un campo magnetico di tensione tra i punti terminali che separano l’eterno e il fugace, il picco invalicabile di perfezione e la prova provata della corruttibilità mondana. La prima, nello specifico, si compone di una membrana esterna di 3333 rose rosse che rivestono un cuore sferico in poliestere: i fiori, al trascorrere delle giornate, ovviamente appassiscono, i petali scontano il peccato della finitudine inscritto nel loro stesso DNA, ma l’abbrutimento delle cangianze e degli aromi porta con sé le tracce di un destino comune. In un dialogo menzionato ancora una volta da Perniola, Voltaire faceva dire alla signorina de l’Espinasse che “a memoria di rosa non si è mai visto morire un giardiniere”, ma nonostante tutto, anche il giardiniere è condannato prima o dopo alla scomparsa: “Le rose non lo sanno – ancora Perniola – ma i giardinieri sono anche loro mortali”. È proprio dalla presa d’atto della brevità del viaggio, però, che Byars prende comunque la via del mare. La seconda sfera, il cenotafio in pietra arenaria, tenta invece di rovesciare il paradigma di fallibilità di tutte le cose, azionando, anche questa volta, un dispositivo di pensiero sottile, non scontato, e costruito sulla variazione della scala temporale: a memoria di rosa non si è mai visto morire un giardiniere, è vero, ma è altrettanto vero che a memoria di costruttore non si è mai vista morire una montagna.
La pietra è eterna, ma è eterna solo per noi uomini, incapaci per statuto di accedere, se non per ingenua evocazione, a una temporalità altra, “geologica”, in virtù della quale i sommovimenti della terra e il passo lungo dell’erosione apparirebbero ben più chiari. Il dibattito a due voci tra le sfere, dunque, è in conclusione un momento d’incontro tra gradienti di perfettibilità di un qualcosa, che è null’altro che la presenza; la proiezione esternata di un’ipotesi impossibile – l’immortalità – che si prepara a un naufragio annunciato; un funerale, di noi come specie, a cui non abbiamo il coraggio, e né le forze, di presenziare, e di cui tuttavia avvertiamo l’imminenza. I limiti di accesso alla totalità fenomenologica, poi, gli argini dell’ordine simbolico e delle strutture emotive e razionali che ci distinguono, sono al cuore di un altro lavoro in mostra, The Conscience, del 1985, una piccola sfera d’oro conservata all’interno di una teca in vetro: la nostra coscienza, per l’artista, è quanto di più piccolo si possa immaginare, e la dote più preziosa. Kevin Powers, a proposito, ha notato come Byars abbia voluto far coincidere la scala dimensionale della coscienza con quella del bulbo oculare, agendo in difesa della relatività dei mondi che abitiamo: Byars, scrive il critico, “trasforma la coscienza dell’artista in una piccola sfera d’oro grande come un bulbo oculare, quasi a voler sottolineare che ciò che possiamo fare è osservare il mondo e porgli delle domande: i nostri occhi sono l’unica gerarchia possibile”. In netto contrasto con la microfisica della coscienza, Byars is Elephant, del ’97 – anno di morte dell’artista – recupera la monumentalità installativa: in questa occasione, Byars stende dal soffitto del grande salone un telo dorato che invade, per parecchi metri, anche la pavimentazione. Al centro dell’enorme tessuto, una corda di pelo di cammello intrecciata a formare una palla. Non più il Giappone, stavolta, ma l’Egitto, le piramidi – le stesse che in un albergo al Cairo egli poté osservare prima di lasciarci – e la comprensione profonda della morte. Abbiamo bisogno di rivestire la nostra corda grezza, sembra sussurrarci Byars, sentiamo la necessità di rivestire un soggiorno transitorio con illusioni pratiche, utili al benessere, essenziali per schivare derive nichilistiche. Byars viaggia, e molto, guardando anche a un est più prossimo e accessibile e spingendosi a ritroso nel tempo nei luoghi che diedero il via alla speculazione filosofica europea, ibridando, in The Moon Books (1988-89), la componente materica greca – il marmo di Thassos – e le tradizioni astronomiche asiatiche, dove le otto fasi lunari classiche vengono raddoppiate e portate a sedici: sedici come le piccole sculture che, poggiate su un tavolo circolare, descrivono le variazioni morfologiche della luna. Con The Figure of Death dell’86, invece, Byars eleva un totem alla morte, impilando dieci cubi di basalto su una base dorata e mettendoci dinanzi a una monumentalità disadorna. L’evento estremo, terminale, della vicenda umana sulla Terra, ci viene incontro come colonna povera, restia alle tentazioni, tutte umane, del rivestimento di superficie che, altrimenti, correrebbe il rischio di lasciare in ombra la dignità autonoma di quel punto di soglia – la morte – che alimenta ogni discorso sull’Altrove, ogni afflato interrogativo su ciò che sarà (o non sarà) poi. L’artista, però, non vuole spegnere il potenziale creativo dell’immaginazione, intendendo – di contro – proporre “la prima filosofia totalmente interrogativa”, parte del titolo della sua installazione del ’77. Hear TH FI TO IN PH Around this chair and it knocks you down, esposta per la mostra d’esordio della Marian Goodman Gallery di New York, è una sedia girevole dell’800 custodita all’interno di una tenda nera di seta. Il titolo sentenzioso, come accade spesso nel percorso artistico di Byars, è una ripresa letterale di frasi e parole pronunciate dall’artista nel corso delle sue performance. A New York, per l’inaugurazione della galleria, Byars, facendo luce sulla sedia con una torcia portatile, recitava un mantra, una litania continua, avvertendo il suo pubblico che, attorno alla sedia, la prima vera filosofia totalmente interrogativa lo avrebbe steso, messo al tappeto. La sedia è vuota, così come è vuota la seduta che la fronteggia – The Chair of Transformation (1989) – stavolta inserita all’interno di un tendaggio rosso. La mancanza di un sovrano, di un capo, sulla sedia, potrebbe indurre a fraintendimenti interpretativi, legati alla tradizione europea: se nell’iconografia paleocristiana, infatti, l’etimasia è la raffigurazione di un trono, vuoto nell’attesa, o meglio in “preparazione” della venuta di Cristo – e quindi un vuoto svilito e momentaneo – nella tradizione orientale, spiega Byars, “Il trono vuoto simboleggia il Budda nella fase della realizzazione del non sé, la sedia vuota dello spirito nei rituali shintoisti”. Con The Spinning Oracle of Delfi (1986), un’anfora in terracotta dorata – anch’essa ottocentesca – Byars torna nel cuore pulsante del mito, della filosofia e della divinazione. A Delfi, infatti, il tempio di Apollo era la sede della Pizia, la sacerdotessa alla quale i devoti si rivolgevano per venire a conoscenza delle loro sorti. Sul frontone del tempio era inciso il motto γνῶθι σαυτόν (gnōthi sautón, ovvero “conosci te stesso”): lapidaria, la breve frase invita all’accettazione, alla presa di coscienza della limitatezza umana, ma anche – è l’ipotesi di Giovanni Reale, che legge il motto reso celebre da Socrate sulla scia del pensiero platonico e neoplatonico – alla ricerca della scintilla divina che è in noi. Platone, poi, è il protagonista di The Head of Plato, una delle dodici sculture in marmo bianco – dodici “libri”, realizzati tra il 1986 e il 1994 e riuniti in un’installazione fedele alla composizione originaria, vista a Rivoli – che rappresentano universali concettuali, archetipi del pensiero, simboli che sbarrano la strada alla traduzione certificata, che chiudono le porte alla trasmissione di informazione aprendo, di contro, alle vie traverse, più ostiche, del dubbio e del mistero. Il discorso sullo statuto mediano dell’essere umano, il dilemma che lo attrae nella morsa dell’essere e del nulla confinandolo inevitabilmente nel qualcosa, è riletto, con The Diamond Floor, del 1995, alla luce dell’Uomo Vitruviano di Leonardo. In quest’opera, infatti, Byars posiziona su di un pavimento nero, cinque cristalli in corrispondenza di altrettante estremità corporee (volto, mani, piedi): “Di recente – affermava l’artista – ho scoperto che la figura umana è formata da cinque punti. Possono essere per esempio gocce d’acqua. Se usi una goccia come testa e da lì tracci un pentagono o una stella, di fatto hai creato un essere umano”. Connotato da una certa orizzontalità, a contrasto con lo slancio verticale delle prime opere in mostra, è anche The Thinking Field (1989), un insieme di cento sfere in marmo bianco che danno consistenza all’idea di campo tensivo già suggerita in precedenza, invertendolo e portando a evidenza tattile non il soggetto energetico, ma l’energia stessa. Rosse, e non più bianche, sono invece le sfere in vetro di Marsiglia – realizzate con la collaborazione di artigiani locali – che compongono The Red Angel of Marseille (1993), grande installazione, che conclude il percorso espositivo e a cui è dedicato un ambiente separato.