Se non capisci una cosa cercala su YouTube, lettere in legno 11×2 metri, Val Badia, SMACH 2017 fotocredit: Gustav Willeit guworld.com

Il laboratorio dell’arte: Luca Rossi

Chi si occupa di arte lo conosce da anni. Le sue dirette, i suoi interventi scritti, i giudizi trancianti sugli artisti, con tanto di nome e cognome, sono diventati un’abitudine, cui sarebbe doloroso rinunciare. Sto parlando, ovviamente, di Luca Rossi, l’artista uomo comune che, celando come Banksy la propria identità, si è eletto coscienza critica dell’arte contemporanea. Il dialogo che segue, senza soffermarsi più di tanto sul segreto del suo nome, in cui anzi rinvengo un’efficace metafora della coscienza collettiva e della rete globale, sintetizza i punti salienti del Luca Rossi pensiero. Con tanto di pronostico sulla prossima Biennale.

Il sistema dell’arte è un meccanismo stratificato e complesso, dai molteplici ingranaggi, ognuno con la propria specifica funzione. Cosa accade quando i ruoli si sovrappongono o si invertono e gli artisti, ad esempio, decidono di farsi curatori?
Questa sovrapposizione di ruolo esiste da molto tempo. È evidente soprattutto in alcune figure “tutto fare”, quelle che Achille Bonito Oliva chiama i “camerieri” del mondo dell’arte, che fanno proprio tutto: critici, giornalisti, curatori, divulgatori… Basta una mancia e il gioco è fatto. La cosa più interessante è quando questa sovrapposizione di ruolo avviene per il gallerista o il collezionista, ossia coloro che detengono più potere nel sistema odierno. “Luca Rossi” nasce nel 2009 proprio da una fusione e confusione di ruolo. Ma una sovrapposizione vissuta consapevolmente per stigmatizzare il problema, per prenderne gli aspetti positivi, ed essere, teoricamente, indipendente dal sistema. 

Una delle raccomandazioni che più spesso rivolgi agli artisti è di esplorare la loro realtà. Allo stesso tempo, però, usando uno pseudonimo, sembri affermare, come direbbe Rimbaud, che io è un altro, che il sé è un’illusione. Stando così le cose, con chi ho il piacere di condurre questo dialogo?
Vestire i panni di Luca Rossi è stato per me un modo per mettere profondamente in discussione quello che ero prima. Una specie di Master auto realizzato. Ma per fare questo, che significa suicidarsi per molti aspetti, bisogna essere liberi e indipendenti dal sistema. Invece oggi gli artisti, soprattutto se giovani, sono i più precari e dipendenti dalle dinamiche del sistema. In questa condizione è pressoché impossibile guardarsi allo specchio e affrontare frontalmente la nostra realtà presente. Stai parlando con Luca Rossi, se vuoi ci possiamo anche vedere dal vivo, non ho nulla da nascondere. 

In molti si sono riferiti a te come a un’entità autoreferenziale, che non perde occasione per parlare di sé. A parte il fatto che vedere le cose in un’ottica personale è prerogativa irrinunciabile degli artisti, che altrimenti farebbero meglio a cambiare mestiere, nel panorama attuale del contemporaneo che posto occupi? Quale ruolo ti attribuisci? 
Spesso parlo del progetto Luca Rossi Lab per indicare degli esempi concreti, che discendono dal lavoro critico che porto avanti dal 2009. Solo nel mondo dell’arte questa cosa viene vista negativamente… Nella scienza, per esempio, lo scienziato che trova qualcosa di interessante, cerca subito il confronto con la sua comunità di riferimento e nessuno si sognerebbe mai di parlare di autoreferenzialità. Vivo un ruolo ibrido, in cui i confini tra autore e spettatore si sono persi. Esattamente quello che avviene nel nostro presente fuori dai musei. 

Gran parte dei tuoi strali sono rivolti ai giovani che si lasciano ammaliare dalla moda del vintage (i “Giovani Indiana Jones”) o da quella sorta di manierismo espressivo che hai definito Ikea Evoluta. Pensi che siano semplicemente pigri, appagati o del tutto a corto di idee?
Non credo lo facciano in malafede. Credo che abbiano svolto un percorso formativo del tutto inadeguato e staccato dalla realtà. Le scuole e le accademie d’arte sarebbero da riformare profondamente, ma nessuno lo dice perché tutti, in qualche modo, ci lavorano dentro o sono collusi. Poi spesso un sistema matrigno protegge questi giovani che credono di poter continuare così all’infinito, mentre questa protezione dura poco ed è solo un’illusione. 

Qual è l’aspetto più importante del nostro tempo – ad esempio degli attuali sviluppi scientifici e delle evoluzioni storiche, culturali o di costume – con cui gli artisti dovrebbero confrontarsi?
L’aspetto più interessante e pericoloso del nostro tempo è sicuramente il sovraccarico di informazioni di cui siamo produttori e consumatori, artefici e vittime. La manipolazione delle informazioni influenza ogni aspetto della nostra vita e della contemporaneità. Nessun artista al mondo lavora su questo. È una cosa assurda che ti dice quanto il mondo dell’arte non abbia bisogno della qualità per sopravvivere. I collezionisti e le scuole hanno grandi e gravi responsabilità.

By left hand fingertips, saliva, polvere, materiali vari, Hauser & Wirth, Minorca 2020.

Credi che il tuo lavoro sia compreso dal tuo pubblico?
Non lo so, vivo una sorta di embargo culturale. Vengo ostracizzato per le cose che ho detto in questa intervista e per il fatto che posso anche fare nomi e cognomi. 

E dal famigerato “mercato”? Mancano davvero i soldi o si possono trovare?
I soldi non mancano, mancano collezionisti preparati che sappiano andare oltre una lettura superficiale delle opere. Spesso non si compra il “cosa” ma il “dove”. Come se fare il collezionista garantisse l’accesso a un club esclusivo che può aiutare il tuo ego e a combattere la noia. 

Sei pessimista oppure ottimista sull’arte italiana?
Pessimista. Mai così male. Bisognava fare qualcosa 12 anni fa, quando avevo indicato problemi e soluzioni. Oggi siamo in un deserto, il problema non è il singolo piatto ma l’intero menù. 

Un’ultima domanda. Cosa ti aspetti dalla prossima Biennale di Venezia? Eugenio Viola ti ha invitato?
Non ho neanche capito chi ha invitato. Se è vero che è stato invitato Tosatti, sarà un Padiglione scenografico, dalle atmosfere polverose e intimiste. Tra arte povera e teatralità “archeologica”. Sindrome del Giovane Indiana Jones. Giovane archeologo che si deve fare accettare da un paese e un collezionismo “per vecchi” e giovani “già vecchi”. Per quanto riguarda la Biennale Internazionale di Cecilia Alemani, sarà una sfumatura della Biennale che vediamo dal 2005 in poi. Spero di ricredermi.