È indubbio: al giorno d’oggi c’è un gran vociare attorno al tema della “fragilità”. Il discorso contemporaneo, nelle sue strettoie socio-psico-sanitarie, offre alla fragilità una sagomatura alquanto frastagliata. Fragile risulta l’uomo del XXI secolo, fagocitato dal vuoto esistenziale della società post-pandemica, bersagliato da crisi identitarie e da flebili e conformanti ideali di prestanza fisica e sociale. Il sentirsi fragile, d’altro canto, è anche rivendicazione di uno status emotivo altamente sensibile, marchio che ci si cuce addosso per riconoscere un proprio modo di sentire ed esperire la relazione con il mondo e con l’altro. Ma fragile, oggi giorno, è anche il gentile epiteto dietro cui si che spesso lo stigma diagnostico del disturbo psichico, della decadenza senile e della debilità mentale, e quindi, in molte occasioni purtroppo, viatico di segregazione ed esclusione. Tirando le somme, tutte queste declinazioni del sintagma “fragilità” trovano nell’astrattismo psicologico, nell’intangibilità del mentale la propria sola e unica matrice, e insistono nel sedimentare una distanza da tutto ciò che è materico, corporale. In direzione diametralmente opposta si muovono le opere della mostra Fragile di Elly Nagaoka, allestita nello spazio intimo della galleria romana “La Nube di Oort”, a cura di Cristian Stanescu e Arianna Di Genova. Attraverso una poetica pittorica altamente figurativa, intrisa di esperienza e tradizione (il richiamo al realismo pittorico anglo-americano è indiscutibile), e decisa a rilevare la realtà nel suo impatto nudo, l’artista giapponese, ormai residente da diverso tempo a Roma, articola una “fenomenologia” della fragilità e della vulnerabilità, incarnate però attraverso la raffigurazione del corpo umano. Si tratta di corpi colti in uno stato di abbandonica staticità, slombati fiacchi e accasciati, pronti a sciogliere, come scrive l’autrice del testo critico Arianna Di Genova, «la loro compattezza plastica in un puzzle atmosferico».
In opere come Rifugio, Con i fantasmi e Senza titolo, si rende ben evidente come il senso di fragilità non sia un vago stato sentimentale in cui i soggetti sono immersi; esso non è semplice narrazione emotiva di ciò che accade loro, bensì forza morfologica che dà origine alla curvatura della loro carne, che s’incarna in essa e la proietta in uno spazio, anch’esso intriso di fragile consistenza, evanescente e liquido (Stromboli), o iperrealistico e statico. Attraverso una pittura incisiva che sa di fotografia, che insiste sul coglimento dell’istante, Nagaoka tenta un’operazione ardita: immettere il senso del fragile nell’orizzonte del visibile e del tangibile, rivelandone l’impatto materico e plastico. Ciò è reso alla perfezione dall’opera Soushou – Ferita: il suo sostare sulla visione di un taglio della pelle rimanda istintivamente alle parole del poeta francese Joe Bousquet, rimasto gravemente infermo a seguito della Prima guerra mondiale: «la mia ferita esisteva prima di me, io sono nato per incarnarla». La ferita è delineata non come cicatrice, orpello nefasto del corpo, ma come taglio-matrice attorno al quale il corpo stesso si coagula e prende vita. Meritano attenzione due opere che si pongono come due estremi, due poli di quel continuum che è insistenza sul corpo. La prima, Senza titolo, del 2023, rappresenta un infante intento a coprirsi con il vestito nero di una donna, verosimilmente della madre, che al contempo gli porge una mano sul capo. In questo caso la vulnerabilità si annida nell’espressione spaurita del bambino e si annoda ad un senso di tenerezza e protezione offerto dall’adulto: c’è bisogno sempre del contenimento e del riconoscimento dell’altro per dar senso alla propria fragilità; proprio come in un amore dove, per parafrasare Theodor Adorno in Minima moralia, ci si può mostrare deboli «senza provocare in risposta la forza». Nella seconda, Famiglia del 2020, l’artista giapponese fotografa un momento di oziosa quotidianità in cui però serpeggia un senso di fragilità sinistro e osceno: la famiglia rappresentata, intenta ad ingannare il tempo a bordo di una piscina, si configura come un insieme di monadi isolate, assorte ognuna nel proprio godimento. La fragilità si situa nella sfaldatura del legame, manifestando invece un’aderenza quasi ossessiva al vincolo o dell’oggetto o della propria immagine: il computer in primo piano, il viso assorto del ragazzo davanti allo schermo, incurante della realtà attorno, il compiacimento della nudità esposto dalla donna, i suoi contorni ispidi, androgini ci indicano quanto la presentificazione della fragilità sia anche un guardare altrove, intendere con uno sguardo acuto e una percezione sottile una realtà che è più reale della realtà stessa.