
In successione: la serie come diagramma temporale
Anche questa mostra è dedicata, come le precedenti, a partire dall’autunno del 2022 e come le prossime che si succederanno nel corso del tempo, fino alla conclusione del ciclo avviato in quell’anno dal titolo “Attraversamenti. Di serie in serie: un anno di molteplici lune”, all’individuazione di momenti unitari, all’interno dell’itinerario poetico degli autori volta per volta coinvolti. Ogni artista viene presentato con una selezionata sequenza seriale articolata in più opere tese a formare un ideale “Polittico” composto da molteplici ma autonomi elementi diversi che nell’insieme alludono a una perseguita coralità. Questa ulteriore tappa all’interno dell’intero ciclo di mostre, già prefissato nella sua futura complessa articolazione, vede coinvolti sei protagonisti della cultura artistica e architettonica del ‘900 italiano. Con alcuni di loro, A.A.M. Architettura Arte Moderna si è trovata a collaborare non solo nel corso della propria attività espositiva, ma anche sul versante delle occasioni professionali, di cui si è fatta promotrice, affidando loro la realizzazione di opere di ampio respiro per committenze esterne pubbliche e private di cui è stata non solo ideatrice ma anche responsabile e garante della rispondenza e conformità ai presupposti di partenza nella loro concreta esecuzione finale. Anche in questa mostra, come nelle precedenti, a partire da quella con cui è iniziato l’intero ciclo espositivo, sono presenti personalità del mondo dell’arte che oltre alla evidente diversificata scelta generazionale, rappresentano differenti specifici disciplinari nonché tecniche diverse. Come nelle precedenti tappe del ciclo “Di Serie in Serie” anche in questa occasione tutti i materiali esposti provengono dall’archivio FFMAAM, e vanno letti pertanto come una sorta di ripercorso della nostra storia espositivi, dei nostri spezzoni di vita condivisi con artisti, architetti, fotografi etc, che ha superato ormai gli oltre quarant’anni, essendo stata avviata alla fine degli anni ’70 del Novecento.
La mostra si apre con una sorta di omaggio di raffinatissima astrazione di Roberto Caracciolo, ad alcune architetture romane, tra le più rappresentative degli anni tra le due guerre, di alcuni straordinari architetti, che avevano avuto come precedenti, nel 2004 tre quadri ispirati dal lavoro di Terragni in una sorta di tributo alla città di Roma. Ciò che in quel ciclo di lavori si presentava con più forza era il carattere “oggettuale” delle opere, vale a dire che l’artista contrapponeva all’evidente bidimensionalità del lavoro una ricercata tridimensionalità del supporto che l’ombra e la giacitura in cui tendeva a fotografare le opere sottolineavano ancor più. Opere sempre presentate quasi sprofondate e spiazzate sulla parete ad esaltare la loro circoscrizione, il loro grado di compiutezza e di finitura. Proprio perché per lui la pittura è una cosa semplice, terrestre e quotidiana sono poche le indicazioni di cui l’artista carica l’opera: l’idea della serie per gruppi omogenei di lavori correlati in base ai colori, il rigore delle pennellate sempre della stessa misura per i quadri piccoli e grandi con l’ovvia constatazione che i piccoli conterranno meno pennellate e le stesse tendono sempre più a trasformarsi in segno così come le sue linee sono sempre più linee-labirinti, linee continue senza inizio ne fine ma che via via tendono a stagliarsi su un fondo che si fa sempre più presente e importante quasi a rovesciare la tendenza a ciò che sta per tramutarsi in troppo facile o ripetitivo in nome di un perseguito senso della leggerezza.
Paolo Cotani, grande artista sul versante della linea dell’arte astratta italiana, che ha segnato con i suoi cambiamenti materici, nell’evoluzione della sua poetica, dalle bende elastiche alle cere, non solo delle svolte nel proprio itinerario artistico, ma nella stessa ricerca più attenta dell’arte contemporanea. Il suo lavoro è stato, specie nei suoi esordi, strettamente legato all’architettura, sia come immagine che come metodologia. Il progetto come indagine sul costruire: è questo che soprattutto interessava allora Cotani, che lo spingeva ad indagare su piani paralleli la costruzione logica dell’opera. La geometria pertanto occupava un ruolo fondamentale per lui, geometria come strumento di conoscenza e legge organizzatrice dell’opera. Pittura appunto come scienza della costruzione della immagine. Nelle sue opere, sempre di forte impatto visivo, la naturale propensione della superficie piana a contenere spazi illusori viene ricondotta sempre ad un livello puramente concettuale e spinta verso nuove soglie della percezione per cristallizzarsi in un essenziale e rigoroso gioco relazionale. Come in un’istantanea, il movimento pur presente nei propri lavori viene sempre colto nell’atto del suo compiersi, raggelato nel suo divenire da un’azione pittorica perentoria che impone una sospensione temporale senza tuttavia negare del moto la dinamicità e lo stato di tensione. A proposito delle ultime e proficue stagioni del suo itinerario poetico, Cotani parla di una sorta di “chiuse, paratie, saracinesche in grado di determinare modificazioni ai comportamenti talvolta eccentrici della natura”, di una natura estetica, evidentemente, formale e percettiva, da intendersi quale origine, essenza e ragione intima dell’essere o del divenire delle cose. Come paratie, i piani passanti deviano il senso ordinario delle figure verso direzioni singolari e imprevedibili, come sbarramenti e interruzioni chiudono la strada a facili interpretazioni. È nella pelle della pittura, nelle sue lente e dense stratificazioni, in quello spessore infinitesimale e apparentemente trascurabile della superficie dipinta che si condensano e risiedono la profondità e l’estensione del senso, oltre l’apparente, rassicurante sensatezza di un intendere comune. È “l’altra parte” che emerge, quella che nelle lucide ed inquietanti riflessioni di Alfred Kubin può manifestarsi e dare spazio al gioco dei rimandi e delle allusioni solo attraverso la negazione della propria formalizzazione.
La ricerca progettuale di Costantino Dardi aveva preso le mosse dal tentativo di definire un vocabolario essenziale basato, per usare una formula a lui cara, sulla inevitabilità dialogica dei solidi platonici: un esercizio di disciplina della creatività, che esploderà in modo espressionistico per quell’ostentata frantumazione tra gli elementi nei progetti successivi. Gran parte dei suoi numerosissimi progetti sono nati per occasioni effimere ed effimera poteva sembrare la loro durata. Il tema dell’effimero sembra seguire costantemente la ricerca di Dardi intervenendo sulla preesistenza, quasi in una condizione di apparente precarietà, costruendo una sorta di linguaggio parallelo che non dialoga con il contesto, ma aristocraticamente ad esso si accompagna rivendicando la propria autosufficienza, in cui la geometria è la sola ragione sufficiente, anche nel momento in cui si autocontraddice o si contesta. L’aspetto che più colpirà nell’evoluzione della sua poetica sarà l’inaspettato frantumarsi del linguaggio in suoni disarticolati, esibiti nel disordinato, e puramente simbolico, disporsi dei solidi geometrici. Insieme a questa irrazionale presa di possesso dell’architettura secondo la geometria, soprattutto negli ultimi progetti, si andrà affermando sempre più la figura della macchina che si affida alla natura per il proprio funzionamento. Il tutto in un percorso che dai primordi del linguaggio, i solidi platonici, del linguaggio della ragione e non dei sentimenti, giunge sempre lungo un percorso disciplinato dal rigore del pensiero cartesiano alla macchina settecentesca. Quando si troverà a intervenire in spazi preesistenti, dagli spazi originari sono eliminate tutte le tracce: di questi si perde ogni memoria, a tal punto il nuovo, pur nella sua apparente precarietà, esibisce la forza del proprio universo matematico. Ma il luogo dove questa contraddizione tra sentimenti e ragione esplode con maggior violenza è nel rapporto tra natura e architettura. Un tema profondamente sentito sebbene limitato a poche occasioni. Nella natura l’architettura sfida il tempo “opponendo al fluire di questo l’immobile stabilità delle sue strutture”. La contraddizione essenziale è dunque tra architettura come linguaggio e «il sistema di natura … diverso profondamente ed ineluttabilmente altro da quello». Nei suoi ultimi progetti infine il circolo del pensiero ritorna a Platone, laddove, nel Timeo le figure assolute dei volumi elementari sono ricondotte, in quanto figure, agli elementi originari : terra, fuoco, aria e acqua.
Nelle sequenze fotografiche di Guido Guidi, vero e proprio cantore del fruire del tempo, il frammento architettonico si presenta quasi sempre come documento del tempo trascorso, se non in una condizione di un presagio di degrado, ossessivamente narrato nella sua ineluttabilità. La città e i contesti delle sue perlustrazioni urbane così come i suoi ritratti architettonici, sia pur di architetture apicali di grandi maestri, sono vissuti nella loro accezione “transeunte”. Le contraddizioni implicite nelle sue fotografie, non vengono “assolte”, ma definiscono invece una immagine corrosa e consunta dei luoghi come concentrato dell’alienazione metropolitana, dello “straniamento” dove il degrado parla di valori perduti ma si espone semplicemente come forma di una inarrestabile caduta, dove lo spirito del tempo parla di inevitabili distruzioni. Già da tempo ormai la conoscenza dello spazio architettonico non si pone più come una autonoma relazione tra soggetto ed oggetto, bensì come una forma di mediazione, che passa attraverso lo strumento della rappresentazione, condizionando indubbiamente il giudizio, definendo le relazioni contestuali così come le scale della rappresentazione stessa, suggerendo, con la luce, il colore, il taglio dell’inquadratura, le poetiche dei luoghi. Ci troviamo così di fronte ad una comunicazione ambigua, dove il «documento» si confonde, ed in modo determinante per l’interpretazione con la sua traduzione operata da un terzo. Tuttavia questa «ambiguità», se non è accettata passivamente, è produttiva, in quanto interpreta la realtà a partire dalla complessità delle sue manifestazioni e ne esplicita le forme in quanto non più riconducibili alle visioni totalizzanti del pensiero classico. Inoltre lo spazio fotografico è, per sua natura, uno spazio essenzialmente parziale e paralizzato, in esso si rappresenta un frammento, ritenuto significante, della totalità spaziale, affinché, all’interno di una configurazione del tempo che nega la storia
fissandola, quasi pietrificandola, nell’istante dello scatto si manifestino le molteplici forme del mondo, e vorrei ancora sottolineare come anche il tempo si contragga in un infinito negativo, divenendo infatti infinitesimo il tempo durante il quale viene condotta l’operazione ed assumendo un significato emblematico rispetto al tempo «lungo» che caratterizza la produzione delle altre arti. Il tutto, proprio perché ciascuna immagine fotografica costituisce una interpretazione ed una traduzione della realtà secondo la poetica ed il codice del fotografo stesso.
Il percorso di Carmengloria Morales va interpretato eliminando dallo stesso qualsiasi parvenza di deriva concettualistica per essere ricostruito nel suo più preciso connotato di sommatoria e stratificazione di esperienze continue, verificate in procedimenti tra i più variabili e nelle diverse fasi degli stessi, con un’attenzione sempre ai temi qualitativi e quantitativi. Tutto ciò, soprattutto nei grandi cicli pittorici, a partire degli anni ’80, fatti di contrapposizioni e stratificazioni luminose, di immediato riferimento a grandi pale d’altare e memori dei più alti vertici della storia dell’Arte Classica, tra sacralità e spiritualità, dal Tiziano Vecellio (1488/1490-1576) dell’Assunta dei Frari (1516-1518 ) a El Greco (1541-1614) del Seppellimento del Conte di Orgaz (1586) riletti alla luce delle totalizzanti distese cromatiche di Mark Rothko (1903-1970). L’intero percorso artistico di C. Morales tornerà a dispiegarsi e a costruirsi in continui ritorni sull’opera in attesa di una estenuante definizione terminale della stessa e sarà sempre evidente allora la stretta connessione tra corpo e mente tra ragione e sentimento che l’artista ha voluto imprimere al compiersi dell’opera. Proprio per questo, a partire dal soggiorno newyorkese, dispiegherà nelle proprie opere un “fare in grande”. Partendo inizialmente da compatti e delimitati strati di campi cromatici tra loro intersecantisi, proprio con la loro aspirazione ad una giacitura multiverso e pluridirezionata, si orienterà poi verso più sfrangiate successive striature filamentose quasi per “trascinamento pittorico” se non per trasmutazione cromatico-alchemica. Sarà a partire da quella fase del suo percorso artistico che C. Morales si confronterà con i più alti esiti della pittura, raggiunti ad esempio da artisti come Nicolas De Staël (1914-1955), che le stesure cromatiche di C.Morales andranno perdendo le proprie delimitazioni stesse per farsi stesure più pervasive e quasi occlusive, come si trattasse di meteore monodirezionate di passaggio, di cui sulla tela restano solo tracce e scie luminose come pura memoria. L’artista sembra trasmetterci infine la sua volontà di recuperare proprio partendo dalla pittura, avvertendone e soffrendone i segni di abbandono, come se ne possa recuperare tutta le pienezza dei significati, proprio attraverso la dissoluzione-distruzione dei procedimenti classici.
La scultura ha ritrovato, nella particolare declinazione del pensiero del moderno di Giuseppe Uncini, una reinterpretazione della materia come limite oltre il quale, e contro il quale, si esercita la riflessione in una continua affermazione e negazione del limite stesso, del corpo concepito come ostacolo. La ricerca dell’artista, attraverso la geometria, attraverso l’esibizione della fredda stereometria della materia, riconduce la scultura alla sua antica tensione verso la sublimazione della materia stessa. Trasparenza e riflessione diventano pertanto il constudium alla luce del pensiero del moderno. Mentre altrettanto singolare, negli spazi “illusori” delle sue opere, costruite spesso anche attraverso la negazione della materialità, delle stesse materie impiegate, dai ferri, ai mattoni, ai cementi è l’analoga ricerca di trasparenze dei materiali stessi affidata alla trama compositiva ed esaltante del contrasto tra gli “intrecci” strutturanti e la compattezza degli elementi solidi. Uncini attento al “progetto” della propria opera, accorto nell’uso dei materiali per le proprie “costruzioni”, rimanda spesso con la sua struttura linguistica e mentale proprio all’universo architettonico. Per Uncini ogni sua opera è occasione di verifica di una coerenza teorica e “progettuale'” che non ha mai abbandonato. L’artista tende all’esecuzione di articolate e complesse strutture nelle quali si innesca un procedimento che, mediante la geometria, l’uso dei materiali, le forme semplici e pure, più che suscitare emozioni, rivela l’idea del “costruire”, dello “strutturare”, ponendo particolare attenzione alla loro grammatica formale, in una associazione libera da contenuti narrativi, perciò autonoma ed autosufficiente. Fin dagli esordi del suo percorso artistico, Giuseppe Uncini ha scelto come elemento caratterizzante di tutto il suo lavoro il progetto di un’opera di scultura capace di esaltare la peculiarità del luogo in cui si andava a collocare. La ricerca di questo artista si è sempre mossa infatti sul piano della riflessione sui temi, essenzialmente simbolici, della trasparenza e della permeabilità della materia ricondotta all’essenzialità delle proprie leggi costruttive geometricamente ordinate. Il contrasto fra la permeabilità e l’opacità della materia stessa fa infatti da contrappunto alle sue ricercate trasparenze. L’artista ha sempre cercato di condurre lo sguardo a soffermarsi sull’opera senza che questa interrompesse le visioni circostanti ma sforzandosi di modificarne l’intelligenza e la comprensione, costringendo il pensiero a riflettere sui propri strumenti concettuali. L’artificio della ragione e le ragioni della geometria che trovano da sempre, nello scontro con la materia, un incomponibile conflitto sono sempre state esaltate dall’artista nella collocazione stessa delle sue opere in un luogo che doveva apparire comunque sempre, nello stesso tempo, interno ed esterno.
Roberto Caracciolo, Paolo Cortani, Costantino Dardi, Guido Guidi, Carmengloria Morales, Giuseppe Uncini
In successione: la serie come diagramma temporale
Coordinamento di Gabriel Vaduva
FFMAAM | Fondo Francesco Moschini A.A.M. Architettura Arte Moderna | Archivio del Moderno e del Contemporaneo, Centro di Produzione e Promozione di Iniziative Culturali, Studi e Ricerche
Via dei Banchi Vecchi, 61, Roma
11 Marzo – 7 Giugno 2024
Opening 11 Marzo 2024, ore 17:00
Orari: Lunedì – Venerdì ore 15.00-19.00
Contatti: +39 0668307537 | info@ffmaam.it | info@aamgalleria.it