Liu Bolin, Freedom in 2023, 2023 | Courtesy Galleria Gaburro, Verona-Milano

Liu Bolin e le donne iraniane alla galleria Gaburro

Liu Bolin conferma la sua idea di un’arte socialmente impegnata con la performance alla Galleria Gaburro di Milano

“Non potevo privarmi dei miei occhi, ma potevo perdere i capelli a cui ero molto legata per dire che sono con tutte le donne che in questo momento stanno vivendo un’oppressione”

Naseibah Shamsai

La conosciamo tutti come la ragazza che si è tagliata i capelli davanti all’ambasciata iraniana a Istanbul, per unirsi alla gente del suo paese nella protesta contro l’omicidio di Mahsa Amini. Lei è il simbolo del trionfo della bellezza anche dove a regnare sono la violenza e la disperazione. Si tratta di una bellezza racchiusa all’interno di un semplice gesto che in quel terribile contesto diventa pura rivoluzione, puro inno alla libertà. Una donna che protesta per la morte violenta di un’altra donna e per farlo per prima cosa si toglie lo hijab, ossia il velo. Analizzando l’etimologia della parola, hijab indica il “rendere invisibile, celare allo sguardo, nascondere, coprire”, quindi indica qualsiasi barriera di separazione posta davanti a un essere umano o a un oggetto, per sottrarlo alla vista o isolarlo. Nasce quindi il senso di “velo”, il velo islamico.

Un passaggio del Corano che normalmente viene citato a proposito del precetto di indossare il velo è l’āya 31 della sūra XXIV (al-Nūr, “La luce”)

«E di’ alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d’un velo e non mostrino le loro parti belle ad altri che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli, o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi maschi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano le nudità delle donne, e non battano assieme i piedi sì da mostrare le loro bellezze nascoste; volgetevi tutti a Dio, o credenti, che possiate prosperare!»

Davanti a queste parole e al dominio del sistema estremista islamico, le donne come Naseibah Shamsei e anche molti uomini hanno deciso di dire basta, protestano pacificamente perdendo la loro stessa vita nei modi più brutali e cruenti possibili per cercare di lasciare ai loro figli un mondo più giusto. Ecco che oltre al frequente rifiuto del velo, si arriva al taglio dei capelli. Viene da domandarsi il perché. I capelli in effetti sono proprio una di quelle “parti belle” della donna che il governo vuole celare alla vista. Sono donne dai capelli forti, neri, molto spesso lunghissimi. Capelli che in sé hanno il senso della ribellione, della potenza e non di meno della femminilità e sensualità. Tagliarli non significa, sottomettersi alla volontà del regime? La risposta è no. Infatti in Iran e nei paesi di religione islamica tagliarsi i capelli è segno di lutto. Per questo, in memoria di Mahasa, le donne iraniane hanno iniziato a protestare tagliandosi i capelli e bruciano gli hijab nelle strade, contro la rigida applicazione del governo della legge sul velo. Proprio quel velo che, messo non correttamente, ha provocato la morte della giovane Mahsa.

Liu Bolin, definito “l’uomo invisibile” è un artista cinese noto per le sue performance durante le quali si autoritrae in ambienti urbani o asettici e grazie a un realistico e totale body painting, si mimetizza con lo spazio circostante. L’artista nelle sue opere sceglie di annullarsi, svanisce, diviene trasparente e denuncia così la condizione dell’uomo odierno che ha perso la propria identità a causa di una società estremamente materialista e tecnologizzata. Oggi l’uomo, costretto ad agire e a pensare secondo il sistema che la società impone, perde la propria individualità e idealmente si annulla. Dice l’artista a proposito del proprio lavoro: “E’ un gesto di denuncia. Cos’è oggi lo sviluppo dell’essere umano, e dove porta? L’uomo sta scomparendo nel suo ambiente. La tecnologia ha portato molto sviluppo materiale, ma per restare umani cosa si deve fare? Io non voglio perdermi in questo labirinto, perciò scelgo questa forma di difesa. Io sono per un’arte di impegno civile“.

Liu Bolin conferma questa sua idea di un’arte socialmente impegnata presso la Galleria Gaburro di Milano, dove l’artista ispirandosi ai moti di protesta delle donne iraniane, crea una performance fotografica. Undici donne iraniane vengono totalmente dipinte direttamente in galleria, sotto gli occhi dei visitatori e distribuite davanti alla foto di Nasibe Shamsaei che si taglia i capelli, per andare a ricostruire questa immagine tramite i loro stessi corpi. Una storia e un dolore che anche quelle giovani donne, sane e salve in Italia, si portano nella pelle. Liu Bolin ricostruisce una ferita, il taglio dei capelli delle donne iraniane simbolo di lutto e rivoluzione e la insanabile ferita sociale e culturale che il governo estremista islamico ha creato nella storia di un popolo e del mondo stesso. Lo fa utilizzando una modalità differente rispetto al ciclo Hiding in Italy, in cui è lo stesso artista a mimetizzarsi nel contesto che lo avvolge. Nella serie Target, sono infatti le persone a divenire parte integrante del progetto e quindi soggetti dell’opera finale. Presso la Galleria Gaburro, a fianco di questa immagine inedita, sono state esposte alcune opere fotografiche e scultoree dell’artista. 

Il progetto si è concretizzato grazie al contributo dell’attrice e attivista Melania della Costa che, consapevole dell’interesse di Liu Bolin nel trattare il tema della libertà, è entrata subito in contatto con Nasibe Shamsaei che rischia costantemente di essere deportata in Iran, per contribuire a darle voce. 

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