Girando come trottole tra le piccole e grandi esposizioni della settimana dell’arte torinese, un momento di pausa sembra esserci finalmente concesso in una dolce domenica mattina, preparandoci al lungo viaggio di ritorno al sud. Le rigide temperature sembrano essersi ammorbidite un po’ quando scegliamo, come ultima tappa di questo nostro tour torinese, di affacciarci, inconsapevoli, alla Fondazione Merz. La mostra dell’artista palestinese Khalil Rabah ci dona, in conclusione, un momento di respiro e riflessione profonda. Un museo errante costituisce il progetto artistico di Rabah: mutevole, instabile ma come mai attuale, Through the Palestinian Museum of Natural History and Humankind.
Entriamo in questa struttura, fatta di impalcature, che sembra raccontarci della costruzione temporanea di un nuovo spazio istituzionale; siamo invitati a riconsiderare le modalità con cui il passato viene raccontato e interpretato. L’ulivo, la sua piantagione e il suo utilizzo, lega il primo grande ambiente al secondo. Lo troviamo sotto forma di olio, di video-installazione e di pittura in queste composte vetrine-casse, pronte ad esser chiuse e spostate altrove da un momento all’altro. Una tela lunga dodici metri sulla parete di fondo racconta di assenze e sventramenti (Acampamento Vila Nova Palestina, 2017), degli arazzi ricamati si susseguono (Common Geographies, 2018-2021) come bandiere smorte ma colorate. Lo scenario che ci si apre nel secondo ambiente è una distesa di tredici vere e grosse piante d’ulivo, Where do you go from here, realizzata appositamente per questa occasione, storica ed espositiva; On what grounds (site plans), del 2022, ovvero tappeti in lana tessuti a mano che richiamano le piantine di abitazioni, sembrano muoversi alti come stendardi sulle nostre teste.
Un neon ci indica in breve la questione: recita In this issue: Statement concerning the istitutional history of the museum.
Adottando il linguaggio stilistico ed estetico del museo tradizionale, l’artista ci porta in un viaggio di rilettura critica delle narrazioni ufficiali: dai confini mutevoli, fisici e metaforici, di terre martoriate da conflitti e guerre, Rabah ricava la possibilità di rileggere una storia naturale e una storia umana, veramente umana e globale, legate da uno stretto filo, in cui l’oggetto privato può esser degno di musealizzazione a prescindere dalla sua unicità, perché portatore di significato. Scegliere di mettere sotto la lente di ingrandimento gli strumenti classici della museologia e della museografia permette a Rabah di rendere sostenibile un discorso filosofico e fenomenologico ampio, di difficile digestione. Una grande rastrelliera da museo, da archivio, contiene una sfogliabile newsletter suddivisa in 24 pagine (In this issue. Act I: painting, 2011). Il progetto del museo palestinese di storia naturale e specie umana è qui raccontato con tagliente ironia e profondità, in un gioco costante tra reale e immaginifico. Un viaggio, impegnativo e sorprendente, che ci cattura fin dalla sua prima pagina, trattenendoci fino all’ultima. Un gioco in cui con gli altri visitatori ci si alterna, tirando fuori, rastrelliera dopo rastrelliera, un pezzettino del programma di Rabah. Al termine dell’esperienza, è impossibile non rileggere con altri occhi e altre verità le due grandi sale, gli oggetti e i reperti presentati negli spazi della Fondazione.
‹‹Il Palestinian Museum of Natural History and Humankind è cubista nella sua impossibilità; è occupato, esiliato nel suo territorio, e al contempo ovunque nel mondo. È un luogo unico e innovativo che attende il nostro ritorno prima di trovare fissa dimora. Con lo sguardo rivolto a quattro secoli fa, tanto antipatriottico quanto inefficiente, è l’ostinazione ottusa del rifugiato, l’oggetto di un disprezzo naturale. Il Museo è avido poiché sussiste nell’umiliante povertà secondo cui l’opinione è un lusso impossibile. Il Palestinian Museum of Natural History and Humankind è l’ossequio di una terribile ignoranza, esige l’infinito delle tracce e persevera noncurante delle frammentazioni. È una riabilitazione locale del futuro. Il Palestinian Museum of Natural History and Humankind è l’Internazionale: un’istituzione al servizio della Storia Universale. È questa la sua unica impossibilità››.
Una collezione per cercare quello che la storia non ha ancora detto, o ha detto male e deve essere raccontato di nuovo; per immaginare nuove relazioni con ciò che crediamo di essere e con ciò che ci circonda; per pensare ai margini, agli esili e agli esiliati, alle identità, provando a scardinare discorsi chiusi e verticali.
Through the Palestinian Museum of Natural History and Humankind di Khalil Rabah, a cura di Claudia Gioia è visitabile presso la Fondazione Merz di Torino fino al 28 gennaio 2024.