Gerhard Merz

“Il Tempo dello Sguardo”: intervista al curatore del progetto

Intervista su un ciclo di mostre che fa riflettere sul tempo attuale: un invito a prendersi una pausa dalla velocità che il mondo odierno sembra imporre.

In attesa del catalogo di prossima pubblicazione, pandemia permettendo, pubblichiamo l’intervista di Maila Buglioni a Massimo Vitangeli, curatore della rassegna Il Tempo dello Sguardo, svoltasi da marzo 2019 a gennaio 2020 preso la Galleria Nazionale delle Marche – Palazzo Ducale di Urbino ad oggi diretta da Luigi Gallo.

Maila Buglioni: «SPAZIO K nasce nel 2017 nella Grande Cucina dei Sotterranei del Palazzo Ducale di Urbino per volontà di Peter Aufreiter, direttore della Galleria Nazionale delle Marche | Palazzo Ducale di Urbino, con lo scopo di proporre mostre curate ogni anno da un curatore differente. In questa terza edizione conclusasi all’inizio di questo 2020, hai curato il ciclo “Il Tempo Dello Sguardo” al cui interno si sono avvicendate ben sette esposizioni. Vorrei, in primo luogo, soffermarmi con te a riflettere sul titolo che hai scelto per la rassegna. La frase dell’intestazione suona come un invito rivolgo allo spettatore, un appello a prendersi una pausa dalla velocità che il mondo di oggi ci impone per soffermarsi con calma ad osservare…»

Massimo Vitangeli: «Da una parte, in quest’epoca compulsiva e connotata dalla sovrabbondanza del visivo, il titolo della rassegna vuole essere un invito a ri-metabolizzare il tempo dell’osservazione, con uno sguardo capace di percepire ciò che risulta apparentemente invisibile affinché l’opera non venga solo contemplata, ma indagata, scrutata, lasciandosi stupire, interrogare, poiché l’arte costituisce sempre una magnifica opportunità per accedere a nuove visioni, metafore, e indicatori della realtà sociale e culturale che stiamo vivendo. Dall’altra, è sintomo proprio dell’artista, che con il suo sguardo trascende qualsiasi confine generando una sorta di pedagogia dello sguardo, con la quale allo stesso modo, l’arte modifica colui che ne fa esperienza. Non si tratta quindi soltanto di percepire l’opera, ma di partecipare personalmente alla sua esistenza.»

M. B.: «In questo anno di attività hai portato all’attenzione del pubblico marchigiano il lavoro di Paola Pasquaretta, Andrea Nacciariti, Luisa Mè, Daniele Bordoni, Paola Tassetti, Filippo Berta e Patrizio di Massimo. Tutti artisti che propongono una ricerca interessante e che indagano secondo differenti linguaggi artistici: dalla pittura alla fotografia, dal video all’installazione, etc. Pratiche ed indagini assolutamente personali ma che svelano problematiche e attitudine sintomatiche delle criticità che quotidianamente l’uomo vive. Quali sono stati i parametri attraverso cui hai selezionato gli artisti di questo ciclo espositivo? »

M. V.: «Mi interessava proporre un ventaglio di progetti fortemente caratterizzati e diversificati, che offrissero peculiarità estetiche, sintomi formali, modalità di approccio e uso del linguaggio, evocativi di quella liberalis strumento di conoscenza, scoperta dell’uomo e del mondo, dove la ricerca delle ragioni dell’azione umana diventa inquieta e l’indagine drammatica. Perciò mi sono orientato verso quegli artisti che hanno un lavoro aperto al senso dell’hazard, congeniale e favorevole a raccogliere l’aura di sfida che ha proposto la rassegna. Hanno giocato un ruolo importante le singolarità dei vari progetti, in particolare quelli che hanno teso a provocare una relazione significativa e pulsante, sia che fossero in dialogo o in contrasto con il contesto quattrocentesco.»

M. B.: «Uno spazio assolutamente non facile quello con cui si sono dovuti relazionare gli artisti da te selezionati, sia per la ex funzione di “Cucina” sia per il suo inserimento nell’autorevole Palazzo Ducale di Urbino, ove la supremazia della storia è ovunque presente: fu realizzato da Luciano Laurana tra il 1466 e il 1472 per il volere di Federico da Montefeltro, il quale successivamente chiamò autorevoli artisti a corte per affrescarlo come Piero della Francesca e Paolo Uccello. Trovare un compromesso con tutto ciò credo che sia stata una grande sfida da affrontare sia per te, in quanto curatore, sia per gli artisti per poter esporvi mostre di arte contemporanea e soprattutto di ricerca.»

M. V.: «Sicuramente è stata una sfida fascinosa e caratterizzata da molti aspetti. Riguardo l’istituzione per esempio, è stato molto importante presentare, discutere e condividere con la governance i progetti di ogni singolo artista, in quanto le proposte con le loro singolarità a volte al limite, andavano suffragate dal ruolo dell’arte, che non è quello di conformarsi, ma di essere generativo di nuove e inedite percezioni, anche se dirompenti e dissacranti… È stato straordinario constatare quanto il Museo con tutto il personale responsabile coinvolto, abbiano concorso con grande impegno e passione alla realizzazione della rassegna, contribuendo decisamente al suo successo. Nello specifico della costruzione e allestimento delle mostre, posso dire che una complessità importante è scaturita dal clima storico, che respiri e ti sovrasta fin dal primo momento. È indubbiamente uno spazio capace di sorprenderti e disattendere ciò che avevi pensato a priori, oltre al fatto che lo Spazio K si presenta come spazio unico, quindi una veduta d’insieme fortemente caratterizzata dai vari elementi storici. Tutte condizioni con le quali ci siamo confrontati in relazione al tipo di progetto, ricercando caso per caso quella negoziazione semantica che non comportasse un adattamento del lavoro impoverendone l’energia primaria. Alla fine se vuoi, è stato un sottile gioco tra riverenza e irreverenza, che grazie al valore e genialità degli artisti, si è approdati a sette mostre composite e seduttive che hanno suscitato il particolare interesse del pubblico.»

M. B.: «Ora vorrei soffermarmi su tutte le esposizioni presentate per il ciclo “Il Tempo Dello Sguardo” chiedendoti di definire ognuna di esse attraverso un aggettivo e di spiegarne il motivo. Partiamo dalla prima ovvero da quella di Paola Pasquaretta (San Severino Marche, 1987 – vive e lavora tra Civitanova Marche e Codroipo) la cui ricerca affronta la tematica della visione e, in particolare, di scardinarne le certezze e i dogmi tramite gli stessi strumenti impiegati dalla scienza.»

M. V.: «CAUSTICA. Dato che ti trovi di fronte ad una costruzione, un Diorama realizzato con estremo rigore tecnico e scientifico, che da subito ti trascina nel gioco della realtà e illusione con il suo panorama prospettico, evocativo di certe vedute rinascimentali, ricoperto di cenere vulcanica che lo omologa, facendolo oscillare tra contemplazione e occultamento. E grazie alla presenza di un fucile posto su cavalletto e puntato verso il Diorama, si intuisce che la stessa costruzione che contiene il panorama richiama per analogia formale le strutture del tiro a segno, quelle che troviamo nelle più comuni fiere, tale da costituire un’invitante prova di tiro verso uno scenario che normalmente sarebbe da contemplare. Una sorta di sarcastica tautologia dell’hazard, che si compie con la lacerazione del visivo, con uno squarcio del bello, quasi come un delitto perfetto della rappresentazione.»

M. B.: «Passiamo ad Andrea Nacciariti (Ostra Vetere, AN, 1976 – vive e lavora tra Senigallia e Milano) che, similmente a Paola, mira a demolire le verità assolute, ma con prassi assolutamente diverse, per proporre una visione della pazzia come «una forma relativa alla ragione, un paradosso della verità, poiché è Il paradosso che colpisce il sapere!» come tu stesso affermi nel testo critico.»

M. V.: «FENOMENICA. Perché ti fa perdere qualsiasi certezza demolendo i canoni della comprensione delle cose; dato che quando accedi si staglia verso di te una chioma di un grande albero tagliato in varie parti, ricollocate dall’artista sul pavimento con istintualità e forte senso dell’azione, dettati dall’idea platonica dell’ispirazione come furore. A questo si aggiunge una piccola e misteriosa scultura in bronzo, che osservandola più attentamente scopri che è la fedele riproduzione di una zolla di terra, che l’artista ha strappato alla natura e ce la ripresenta così come la ritroveremmo in un lembo di terra appena arato. Nel complesso è una situazione che ribalta il concetto di verità e illusione attraverso il paradosso, che ti obbliga a riconsiderare il sapere, che mira al conflitto con il nobile contesto per interrogarsi sul perché, e dove il concetto di follia diventa generativo di un altro sapere che apre a nuove possibilità e riflessioni del vedere.»

M. B.: «Il duo Luisa Mè (Francesco Pasquini: Pesaro, 1991 & Luca Colagiacomo: Milano,1990 – vivono e lavorano a Londra) ha dato luogo, invece, ad una pantomima tragicomica della vita umana grazie ad una messa in scena teatrale costituita da una serie di dipinti su velluto e di piccole sculture rappresentanti, attraverso forme tragiche, cavalieri deformi che diventano metafora dell’uomo odierno e del suo declino intellettuale. Cavalieri che, come tu scrivi nel testo critico: «Non descrivono nulla, ma combattono quella cultura medicalizzata e anestetizzata allo stesso tempo di una civiltà al suo limite, pronta per un’era improvvisa, abitata da un uomo rarefatto, cucito, tagliato, erotizzato, antisociale, eppure politico.»

M. V.: «ERETICA. Una mostra che non si accontenta di facili definizioni o di schemi predefiniti, che scava dove non c’è nulla da scavare, che osa essere straordinaria e manifesta la conoscenza del passato, sfuggendo all’immobilità del presente in una società eccessivamente confortante. Lo spettatore si trova di fronte una serie di dipinti di potenziale forza e vigore, che sprigionano l’immagine dell’inquietudine, quasi presagi di qualcosa che sta per avvenire e dove nulla è rassicurante. Figure di cavalieri che ci parlano dell’uomo moderno e della propria solitudine, che si nascondono all’interno di corazze perché hanno paura dell’altro e del futuro. Cavalieri consapevoli della loro fragilità senza voler cedere al richiamo del nulla, pronti a combattere nella continua ricerca di auto affermazione, persi nella loro estrema libertà e nel loro stato d’inconsistenza. E come nella civiltà umanistica e rinascimentale, la figura del cavaliere, non viene più rappresentata come l’eroe ma bensì come l’uomo con le proprie debolezze, incertezze e paure. Una mostra direi autobiografica.»

M. B.: «Con Daniele Bordoni (Jesi, AN, 1974 – vive e lavora tra Jesi e Berlino) si ritorna nel mondo presente grazie a Interius ovvero «uno sguardo quantico sulla natura che attinge contemporaneamente allo sci-fi di una certa letteratura filmica, alla narrativa fantascientifica, alle ermeneutiche e speculazioni del pensiero filosofico, al pensiero scientifico e della bioscienza.» (Massimo Vitangeli). Un’immensa immagine fotografica sulla natura, di cui ne sfuggono i confini, si dipana sul pavimento dello Spazio K mentre sulle pareti si erigono trionfanti dipinti dando vita ad un’interessante relazione tra idiomi e tecniche artiste differenti sia per tipologia (Fotografia VS Pittura) sia per la storia che esse rappresentano (l’appena centenaria fotografia vs la millenaria pittura).»

M. V.: «QUANTICA. Poiché è come entrare in uno spazio multiplo e nervoso, dove inizialmente ti accoglie una visione prospettica di un’estesa costruzione fotografica dal soggetto naturale, adagiata sul pavimento e sulla quale vorresti istintivamente scivolare e abbandonarti come in un flusso temporale del visivo. Proseguendo percepisci che i dipinti, le immagini e le forme, concorrono tutti ad un sistema fatto di sinapsi e connessioni che sprigionano impulsi come cellule in cerca di reazioni. Si coglie uno schema umano dell’azione fatto di relazioni e rimandi tra i diversi linguaggi, che si dispiegano in uno scenario a più dimensioni sfuggendo al senso del proprio tempo, ma ti invitano a creare il tuo proprio tempo addentrandoti tra mondo interiore ed esteriore, tra caos e ordine. Un agglomerato di cosmogonie e isotopie per la visione di mondi possibili e impossibili, che si traducono in un sentimento universale che tende a temporalizzare ciò che sfugge al tempo per la necessità stessa dell’esistenza.»

M. B.: «Intimità e psicologia sono invece al centro del linguaggio di Paola Tassetti (Civitanova Marche, AN, 1984) che ha qui offerto la visione del suo mondo interiore attraverso installazioni e dipinti che esternalizzano una sua ‘psicogeografia’interiore ove è evidente un conflitto in atto (misticismo vs religione, biologico vs oggettuale, civiltà vs barbarie), come tu affermi: “Un ordine complesso quello dell’artista, una visione dove i luoghi sono l’espressione visibile della sopravvivenza dell’arcaico in un conflitto tra natura e cultura, generativo di squarci pulsionali e formule simboliche, dove la pulsione del pathos o del patologico si rivela essenziale per gli oggetti presentati e per lo sguardo aptico portato su di essi.”»

M. V.: «PATOLOGICA. Nel testo critico ho definito l’artista una intrepida argonauta per il suo irrinunciabile e ossessivo viaggio nel mondo che la circonda. Entrando nella mostra sei subito catturato da una istallazione a pavimento, circolare ed evocativa della struttura formale dei gironi danteschi. Continuando, vieni proiettato in una sorta di ossessione inventariale al quale è difficile sottrarsi, tra intrecci anatomici di vita quotidiana, tracce vegetali, reperti minerali, squarci iconografici, in cui il pathos e il patologico si fondono e offrono allo spettatore la possibilità di lasciarsi emozionare come se tutto fosse parte dell’esistenza di ognuno di noi. Un senso tassonomico della coscienza, in cui le stratificazioni condensano la memoria con il presente, un presente in cui ritrovare anche le nostre ossessioni…»

M. B.: «Il videoè, invece, il mezzo attraverso cui Filippo Berta (Treviglio, BG, 1977) preferisce porre all’attenzione dello spettatoretensioni sociali che coesistono tra individuo e le diverse condizioni esistenziali. Nelle sue opere Filippo mette a nudo azioni quotidiane evidenziando quei meccanismi imperfetti che causano diseguaglianze, contrasti e tensioni della condizione umana come in In our image and likeness (2018) dove il semplice giocherellare di un uomo con un rosario sottolinea la dissacrazione dell’idolo da parte dell’idolatra. Concetti molto forti che scuotono l’osservatore sovvertendo quella realtà che siamo abituati a desiderare e percepire.»

M. V.: «SOCIALE. Inizialmente il corpo della mostra ti accoglie in una piccola stanza buia con una performance, alla quale può accedere una persona alla volta soffermandosi per il tempo di un minuto, nella quale ti trovi solo, o sola, di fronte ad un individuo seduto che volteggia ossessivamente un classico rosario di preghiera. Un’azione intensa, che senza intenti blasfemi, agita l’io del nostro essere, invitandoci a riflettere sugli idoli sotto i quali abitualmente ci rifugiamo. Una metafora toccante che ci interroga sul senso della vita e sulle nostre certezze. Nella grande sala, troviamo un video di un’azione collettiva realizzata sul bagnasciuga di una spiaggia deserta, dove un gruppo di persone in fila indiana cerca invano di seguire la linea naturale e irregolare della battigia in continuo cambiamento, provocando nello spettatore un forte senso di disorientamento per l’apparente non-sense che l’azione restituisce. Una metafora sulla condizione dualistica e l’impossibilità di raggiungere un equilibrio, per indurci a riflettere sulla condizione umana e il ruolo che la società ci impone.»

M. B.: «In ultimo ma solo in senso cronologico, Patrizio di Massimo (1983) che ha presentato una mostra inquietante a metà tra il decorativismo barocco e l’essenzialità contemporanea attraverso due sculture iconiche di un mondo appartenente al passato e un dipinto raffigurante l’attualizzazione di antichi miti. Opere che divengono sinonimo di verità occulte, di segreti non detti unendo in un solo tempo presente, passato e futuro. «Il suo è un viaggio fenomenico nell’antropologia del presente, in cui l’ordine dei codici visivi viene sovvertito rimettendo in gioco i regimi abituali della rappresentazione con forme espressive adatte a interpretare i sintomi della coscienza contemporanea, invitandoci ad un voyeurismo lacaniano dove il godimento va ricercato nelle pieghe dell’apparenza e del visibile, districandosi tra sublimazione e perversione, tra bellezza e grottesco, erotismo e travestimento, seduzione ed enigmaticità.» (M. Vitangeli, dal testo critico della mostra)

M. V.: «IPERTROFICA. Quella di Patrizio Di Massimo si presenta come un iper-scenario, dove nell’atto di fruire la mostra, osserviamo anche noi stessi… Le opere ti rispecchiano per la loro possibilità di evocare in noi memorie intimamente culturali. Entrando, come nell’illusione onirica dove tutto appare ampliato e alterato, ti trovi a condividere lo spazio con due grandi sculture, quasi baluardi che ci osservano e si lasciano osservare, palesemente decorative e ridondanti per la scelta dei colori e la costruzione tecnica della tessitura, tipica delle nappe, elementi che un tempo erano presenti in molti ambienti domestici e oggi ormai in disuso, ma allo stesso tempo riconoscibili, geneticamente familiari… L’opera pittorica a parete invece, evoca l’enigmaticità della rappresentazione scenica e del travestimento, aspetti che hanno sempre caratterizzato il palcoscenico dell’arte. Una stratificazione di epoche che si insinuano nella mente con apparente classicità, dando luogo a un’ipertrofia della memoria, che ci proietta in una domesticità universale del passato, ma anche del presente.»

M. B.: «Osservando a posteriori il ciclo di esposizioni presentate nel corso di questa rassegna ti chiedo se tra di esse hai trovato delle affinità, difficoltà, modalità sintomatiche di nuove direzioni, etc…»

M. V.: «Parlando di affinità e osservando la rassegna a posteriori, l’immagine che ancora alberga nella mia mente è quella di un unico spettacolo interpretato con sette prospettive diverse, in cui gli artisti nel cimentarsi hanno manifestato in maniera quasi univoca il desiderio irrinunciabile di addivenire alla disputatio, impulso seduttivo ed essenziale nel gioco dell’arte e della sua messa in scena, con i suoi dispositivi possibili e impossibili… Sono indubbiamente analogie e affinità sulle quali è interessante riflettere. Per quanto concerne le difficoltà, gli intoppi, ecc., ho scelto di procedere sempre e solo col singolo artista, dal sopraluogo al confronto (maniacale) sul progetto, fino all’occupazione fisica e mentale dello Spazio K. Da qui in poi posso dire che è nata quell’esperienza significativa e rivelatrice, in quanto constati se ciò che avevi pensato anche nei minimi dettagli trova corrispondenza con lo spazio espositivo che in qualche modo avevi in parte idealizzato. È in questa circostanza che si può parlare di difficoltà, che sarebbe meglio definire aggiustamenti percettivi, nel senso fenomenologico di come lo spazio influenzi l’immaginazione poetica, mettendo alla prova l’abilità e la capacità d’azione dell’artista, e non solo… L’artista entra anche in una fase scoperta, non protetta, dove i dubbi, le perplessità e le complicanze, riaprono lo Sguardo sull’insieme, obbligandoti ad una ulteriore valutazione percettiva, poiché come ho già accennato, è uno spazio capace di sorprenderti e disattendere ciò che avevi pensato. È anche la fase dove, come nel mio caso, intercetti movimenti e sintomi che possono presagire eventuali sviluppi e nuove direzioni del lavoro dell’artista. Alla fine, questa bella e intrigante avventura, si è configurata come una piattaforma dialettica in movimento, intuitiva e cognitiva, in vibrazione costante, e se devo prefigurarmi un fil rouge tra le sette mostre, lo vedo disegnato a zigzag, come un serpeggio che va e viene da una mostra e all’altra, tra un artista e un altro… D’altronde scomodando P.F. Guattari, “…l’arte non deve solo raccontare delle storie, ma creare dei dispositivi in cui la storia possa farsi…”.»

INFO:

Il Tempo Dello Sguardo

a cura di Massimo Vitangeli

Galleria Nazionale delle Marche – Palazzo Ducale di Urbino

SPAZIO K – Grande Cucina dei Sotterranei di Palazzo Ducale

Rassegna di sette mostre personali per la terza edizione dello Spazio K, dal 21 marzo 2019 al 6 gennaio 2020

Direttore: Luigi Gallo

Coordinamento tecnico-scientifico: Giovanni Russo, Andrea Bernardini

Comunicazione e ufficio stampa:Stefano Brachetti, Francesca Federica Conte

Allestimento: Andrea Sanchini/Arti grafiche della Torre

Crediti fotografici: Wilson Santinelli

Maila Buglioni

Storico dell’arte e curatore. Dopo la Laurea Specialistica in Storia dell’arte Contemporanea presso Università La Sapienza di Roma frequenta lo stage di Operatrice Didattica presso il Servizio Educativo del MAXXI. Ha collaborato con Barbara Martusciello all’interno dei Book Corner Arti promossi da Art A Part of Cult(ure); a MEMORIE URBANE Street Art Festival a Gaeta e Terracina nel 2013 e con il progetto Galleria Cinica, Palazzo Lucarini Contemporary di Trevi (PG). Ha fatto parte del collettivo curatoriale ARTNOISE e del relativo web-magazine. Ha collaborato con varie riviste specializzate del settore artistico. È ideatrice e curatrice del progetto espositivo APPIA ANTICA ART PROJECT. È Capo Redattore di Segnonline, coordinando l'attività dei collaboratori per la stesura e l’organizzazione degli articoli, oltre che referente per la selezione delle news, delle inaugurazioni e degli eventi d’arte. Mail eventi@segnonline.it