Hyperzoo
Michele Giangrande, Hyperzoo, 2020 Foto Ⓒ Giovanni De Angelis

Hyperzoo

Hyperzoo, uno shortfilm della durata di un quarto d’ora di Michele Giangrande, è stato messo in scena tra il 30 luglio e il 4 agosto 2019 per uno degli Atelier del Macro.

Otto miliardi di persone. Questo è il numero, secondo le stime dell’Onu, della popolazione che attualmente vive sulla terra. Mai così tanti eppure mai così soli. Nell’era dell’interconnessione, del “vicini anche se lontani”, si è perso il contatto umano, quello autentico. Mentre i rapporti interpersonali si sfilacciano, ora ulteriormente compromessi dalla pandemia, trasferiamo la nostra socialità sul web delegandola ai dispositivi. All’io personale si è sostituito l’io digitale. Sullo schermo scorrono le nostre foto felici ma in realtà siamo afflitti da una moltitudine di mali (obesità, nevrosi, stress, depressione), quegli stessi mali di cui soffrono gli animali in cattività. La giungla urbana è in realtà uno zoo, anzi uno zoo potenziato. 

Da queste riflessioni nasce Hyperzoo, ultima fatica di Michele Giangrande, artista pugliese che da tempo alterna nella sua ricerca irriverenza e profondità, ironia e serietà, mixando media e chiamando il pubblico ad una partecipazione attiva. Uno shortfilm della durata di un quarto d’ora, nato come testimonianza finale di un atto metamorfico, allo stesso tempo performativo, installativo e relazionale, messo in scena tra il 30 luglio e il 4 agosto 2019 per uno degli Atelier del Macro. Voluti dall’allora direttore Giorgio De Finis (anche se concettualmente anticipati dalle Project room delle gestioni precedenti), gli atelier erano spazi delimitati da pareti di vetro (una ibridazione tra l’intimità dello studio e la dimensione pubblica del museo) aperti alla sperimentazione, in cui gli artisti invitati si trasferivano momentaneamente,  lavorandoci per circa una settimana e creando un’opera finale. Nel farlo si mettevano in vetrina, entrando in relazione con il pubblico. Per Giangrande l’atelier del Macro più che una proiezione dello studio ha rappresentato il luogo della cattività contemporanea. Durante la sua permanenza ha ricoperto le pareti di vetro con centinaia di fogli di giornale. Un atto tanto semplice quanto denso di significati. La trasparenza del vetro era negata ma non del tutto compromessa. La privacy è un diritto da più parti auspicato e acclamato ma è in contraddizione con una società ipermediale connotata da una comunicazione rapida, bulimica e ossessivamente pervasiva. Oltre che a quest’ultima la carta stampata ha rappresentato per l’artista un riferimento memoriale, rievocativo delle auto appartate che vedeva da bambino nella sua città. Auto in cui si consumavano amori occasionali e che alla curiosità del bambino apparivano microcosmi densi di mistero, resi ancora più affascinanti dalle parole chiarificatrici del padre: “lì ci sono persone non hanno voglia di far vedere i fatti loro agli altri”. Un’intimità conquistata ma effimera, resistente quanto i fogli di giornale, dissolta poco dopo l’atto, proprio come nell’Hyperzoo. Anche qui infatti, dopo una fase di isolamento volontario, l’artista è tornato in relazione con i suoi simili, lasciando che il pubblico entrasse nella gabbia di vetro. Quest’ultimo, infine, è stato chiamato ad interagire con lo spazio lasciando un segno del suo passaggio e trasformando l’opera da installativo-performativa in relazionale. 

Il video, che si apre con una citazione dell’etologo e zoologo Desmond John Morris (“The city is not a concrete jungle. It is a humane zoo”), restituisce la duplice dimensione dell’atto artistico, tra esibizionismo e frustrazione. La telecamera posizionata  all’esterno, quando ancora la parete frontale lo consente, mostra l’artista intento ad interpretare “l’animale sociale”, fiero, aitante, in prose ardite, ma quando l’ultima parete è coperta e la telecamera si sposta all’interno della gabbia, la riconquistata intimità rivela un essere ferito e insicuro, rannicchiato o relegato in un angolo della stanza. Una condizione di sofferenza che perdura fino a che la gabbia non si apre. È allora che il pubblico è chiamato ad intervenire sullo spazio, scrivendo sui giornali, in un atto salvifico e di comune solidarietà.

Diretto dallo stesso artista e prodotto da Clan Sui Generis di Roma, il film, a poche settimane dalla sua uscita, ha già ricevuto numerosi riconoscimenti. Già finalista al Frostbite International Indi Fest in Colorado e all’International Symbolic Art Film Festival di San Pietroburgo, è risultato vincitore in India nella categoria “Best silent short film” al Golden Sparrow International Film Festival di Sirkali e nella categoria “Best experimental short film” al Port Blair International Film Festival. Presto approderà al Wanlin Art Museum di Wuhan in Cina, per la collettiva “Pray for the world”.