Nicola Samorì – Arco della sete, 2020, olio su tela, 150x200cm

Luogo

Fondazione Alberto Peruzzo
via Dante Alighieri, 63 - Padova

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Data

Giu 19 2025 - Ott 05 2025
In corso...

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Mostra

DAMNATIO FIGURAE: Dalla negazione dell’immagine al ritratto

Al centro dello spazio dell’ex Chiesa di Sant’Agnese a Padova, oggi sede della Fondazione Alberto Peruzzo, è allestita sin dalla riapertura al pubblico l’opera Senza Titolo (1996) di Jannis Kounellis, una sorta di croce laica alta 4 metri, composta da una trave con un sacco di juta trafitto da un pugnale, esposta in modo permanente nell’area dell’ex altare ricostruito con una teca in ferro e vetro. Dalla contemplazione di quest’unico lavoro nasce la mostra DAMNATIO FIGURAE: Dalla negazione dell’immagine al ritratto, a cura del direttore della Fondazione, Marco Trevisan, che dal 19 giugno al 5 ottobre 2025 occupa gli spazi della Navata dell’ex chiesa e della Sacrestia.

Alludendo alla crocifissione senza il corpo di Cristo e alla sofferenza, con Senza Titolo Kounellis attua una “poetica del segreto”, quando la materia evoca il mistero delle cose sconfinando nella teatralità, e l’assenza della figura è potente e tragica. Da questa premessa nasce l’idea espositiva del curatore che si è interrogato su quali opere abbiano la stessa capacità di far parlare una figura nascondendola, partendo da un nucleo di opere esposte in navata provenienti da altre collezioni, mettendole in dialogo con una selezione di ritratti di artisti importanti della collezione della fondazione, che affrontano il tema della rappresentazione dell’immagine in maniera più classica, attivando nuovi dialoghi e riflessioni.

Al centro del percorso il tema dell’identità e della sua percezione, dell’assenza e della presenza dell’immagine e della sua forza evocativa, e di come ciò influisca sulla determinazione dell’idea che ci facciamo degli altri, siano essi singoli o in gruppo.

“Il termine “damnatio figurae” si riferisce a una negazione delle immagini, un tema che si ricollega a dibattiti storici non solo sull’iconoclastia, ma in generale sull’uso delle rappresentazioni visive” – spiega Marco Trevisan – “Riccardo Falcinelli in Visus (2024) per esempio discute di come le immagini possano essere sia potenti che problematiche, analizza il loro ruolo nella società, invita a riflettere su come le immagini delle persone possano essere manipolate e sull’impatto emotivo e sociale che ciò crea”.

Partendo da questi presupposti, nella Navata dell’ex chiesa sono allestite le opere di quattro artisti – Aron Demetz, Nicola Samorì, Thorsten Brinkmann e Mariano Sardón – che lavorano sull’assenza e il celamento dell’espressione umana, senza tuttavia arrivare all’iconoclastia.

Le sculture in legno bruciato, lavorato, alterato di Demetz hanno spesso lo sguardo nascosto o non perfettamente leggibile, con l’obiettivo di spostare l’attenzione sull’interiorità, l’introspezione, la resilienza. Samorì parte da una grande ammirazione per la pittura classica, in particolare quella barocca, per attuare uno scarto che lo spinge a una esplorazione a volte oscura della materia pittorica e scultorea. Anche Brinkmann parte da una rielaborazione dell’arte del passato, in particolare quella dei ritratti rinascimentali, di cui mostra una nuova lettura e interpretazione. Infine l’argentino Sardón lavora con i codici, gli algoritmi, la computer grafica, spesso in collaborazione con neuroscienziati.

Gli spazi dell’ex Sacrestia raccolgono invece una serie di ritratti dall’impostazione più classica, tutti provenienti dalla collezione della Fondazione, tra cui troviamo Reigning Queens (1985) di Andy Warhol, parte della serie di ritratti di grandi dimensioni realizzati a partire da fotografie ufficiali delle regine allora in carica, compresa Elisabetta II. Il ritratto della regina è messo in dialogo con quello dell’artista stesso dipinto da Enzo Fiore, e con una Elisabetta II ancora più pop ed irriverente realizzata dallo street artist Endless.

Di Donald Baechler, pittore e scultore americano della corrente Neoespressionista degli anni Ottanta, è presente in mostra con Kuwana city (1990) un’opera di grande formato in cui è evidente il suo approccio alla figura umana, in cui volti e corpi sono spesso ridotti a forme primarie e simboli dai colori forti, che aprono a una riflessione sull’identità e a un’esplorazione della nozione di “volto” e “figura”.

Due dipinti di Felice Casorati e uno di Tom Wesselman accompagnano il pubblico in una riflessione sulla figura femminile, in cui Barbara and the baby (1979) di Wesselman punta su colori vivaci e forme elementari, in una celebrazione pop della sensualità femminile, mentre Donna con scodella (1959) e Nudo nel paesaggio (1954) di Casorati esprimono una bellezza più austera e introspettiva, in cui l’uso di colori tenui e composizioni equilibrate, creano un’atmosfera di serenità e mistero.

Tra le opere meno tradizionali troviamo Ritratto con Fondo Verde e Tracce Beige (2005) di Manolo Valdés, che impiega materiali come tela riciclata e collage per trasformare il ritratto in un’opera che evoca storie, memorie, cultura. Un giocoso Max Ernst, attingendo al suo repertorio surrealista di forme bizzarre in cui elementi fantastici e onirici sfidano la realtà tradizionale, ritrae un essere con un volto simile a un palloncino.

Completano il percorso opere di Julio Larraz, Sandro Chia, Fernando Botero, Zoran Music e Mimmo Paladino, ognuno con una declinazione assolutamente personale di un soggetto tanto classico quanto variegato, diventato dopo l’invenzione della fotografia sempre più strumento di riflessione sull’identità e sulle relazioni che ognuno di noi mette in atto nella società.

In questo contesto, l’opera di Maurizio Cattelan Stadiumexhibition copy di un calcio balilla di 7 metri per scontri tra 22 giocatori, palcoscenico su cui mettere in scena ruoli in bilico tra intrattenimento e critica sociale, tra identità e relazione – completa la riflessione sull’identità delle persone e delle società e, attraverso l’espansione di un gioco nazional popolare, non giudica né invita all’azione ma, come uno specchio, vuole riflettere “l’anestesia a cui siamo assuefatti”.

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